Tuttolibri, 14 ottobre 2023
Parla Luigi Zoja, psicoanalista junghiano
Luigi Zoja, uno dei nostri più importanti psicoanalisti junghiani, si dedica da anni all’iceberg dell’inconscio umano, ovvero a quella montagna di ghiaccio di cui scorgiamo solo una minima parte. Quanto poco ci dica la punta visibile dell’iceberg hanno provato a spiegarlo Hemingway e il Titanic: il primo scrivendo che, in una storia, conta molto di più quel che non si vede; il secondo affondando proprio per colpa della massa sommersa e invisibile. Per Bollati Boringhieri è appena arrivato in libreria Sotto l’iceberg. Presenze inconsce nella società e nella storia, un volume di articoli e saggi che Zoja aveva pubblicato finora solo in inglese e tedesco, e che qui finalmente vengono raccolti in italiano. Lo incontro nel suo studio, una mansarda arrampicata sui tetti di Milano e affacciata su un panorama di comignoli tipicamente milanesi, simili a piccole frecce cilindriche lanciate verso il cielo. In questa stanza piena di libri, lui seduto alla sua scrivania e io in poltrona come una paziente, abbiamo parlato del sommerso invisibile e di tutto ciò che lo circonda, ma anche di amore e magia.
Come ha capito di voler fare lo psicoanalista?
«La mia era una famiglia borghese: mio nonno aveva fondato a Venezia nell’800 una delle prime industrie farmaceutiche d’Italia, e da lì si spostò a Milano. Mio padre andò a lavorare con lui. Io ero il primo figlio maschio e l’idea era quella di seguire le loro orme, perciò frequentai la Bocconi, dove mi annoiavo e mi deprimevo. Facevo però volontariato con il Telefono Amico, e all’università passai più tempo là che a lezione. Quando andò al governo Mario Monti vidi che eravamo in Bocconi negli stessi anni, e mi dissi: che strano non averlo mai incontrato. Poi capii: certo, lui sarà stato sempre a lezione, io invece mai».
Però in Economia si è laureato.
«Sì, senza infamia e senza lode, con una tesi in sociologia. Lì il professore mi chiese se volevo entrare in un gruppo che stava fondando, e io per un anno andai, ma senza trovarmi molto. Mi stavo appassionando di psicologia, e così uno dei volontari di questo Telefono Amico mi diede dei prospetti dello Jung Institute: vidi che era un’istituzione molto laica, dove si poteva entrare con qualunque laurea. Mi trasferii a Zurigo con molto timore da parte dei miei genitori, che pensavano fossi troppo sognatore e avevano paura rimanessi senza lavoro».Quanti anni ha vissuto a Zurigo?«In tutto dieci. Mi formai lì, poi cominciai a prendere pazienti a Milano facendo il pendolare. Infine fui assunto come analista in una clinica di Zurigo, all’epoca l’unica clinica junghiana nel mondo. Ogni paziente aveva tre sedute di analisi la settimana. Molto internazionale: c’erano giorni in cui non facevo un’ora nella stessa lingua: si parlavano italiano, francese, tedesco, inglese, spagnolo».Qual è la cosa più complicata che si è trovato a fronteggiare nella sua carriera?«Tante, ma pensando agli ultimi anni dico una madre con il figlio suicida, venuta in analisi per vedere in che modo poteva essere stata compartecipe. Questo mi ha posto un problema etico, nel senso che secondo me era responsabile anche lei, come spesso lo sono i genitori. Fare questo mestiere non è gratis: se si è persone normalmente affettive ci si sente tirati dentro. Io sono stato un ragazzo non patologicamente depresso, ma spesso depresso, e quindi empatizzo molto soprattutto con i giovani, specie in questo mondo consumista che dà loro l’illusione di uscire dalle depressioni buttandoli in aperitivi e in allegrie fasulle, tutte cose che si limitano a rimandare la resa dei conti con quello che siamo. L’analisi è un’applicazione dell’ottavo comandamento: non mentire. E se non vuoi mentire agli altri, prima di tutto devi imparare a non mentire a te stesso. Suona un po’ cheap, ma è così».Lei crede nella felicità? Di cosa può essere fatta?«Credo nelle umanità imperfette, e mi insospettisco quando certe idealizzazioni diventano troppo letterali. La felicità non l’ho vista. In compenso ho visto troppi drogati nelle persone che credevano nella felicità. Da giovane, peraltro, ho provato anch’io diverse droghe: per curiosità, perché circolavano».Quali ha provato?«Un po’ di cannabis ma poca, perché non fa tanto; un po’ di amfetamine, quel che c’era; e poi l’LSD, la più interessante. Una volta in campagna mi misi a osservare un filo d’erba per ore, e fu un momento di bellezza purissima. Ma c’era anche chi in trip stava a fissare il sole e si rovinava gli occhi per averlo guardato troppo a lungo».In Occidente, a differenza di quello che succede in altre culture, si è perso contatto con tutto ciò che sfugge al piano razionale. Smettendo di credere alla magia abbiamo smesso di capire il mondo?«Senz’altro abbiamo smesso di capire una parte essenziale del mondo, che però ci abita ancora perché risiede nell’inconscio collettivo da migliaia di anni: la presenza del mito. Possiamo non essere d’accordo con questa o quella religione, essere atei o agnostici, ma non possiamo svalutare il pensiero magico. Dobbiamo anzi conoscerlo, anche per vedere dove supera certe barriere e diventa distruttivo, come nell’estremismo islamico, o nel cristianesimo di qualche secolo fa. Perdendo l’apertura mistica rischiamo di perdere tutto, anche la poesia. Nella mia professione per esempio si rischia di confondere la malinconia con la depressione. Solo che la depressione è un quadro clinico, mentre la malinconia è un contributo creativo senza il quale non avremmo avuto gran parte del XVI e XVII secolo, e gran parte della letteratura e della musica».Da psicoanalista, come si spiega l’amore?«Se ci arriva un innamoramento, a qualsiasi età succeda, capiamo perché gli antichi lo ritraevano come una cosa esterna: una freccia, ovvero qualcosa di inspiegabile. Nella realtà è una proiezione. Raramente sappiamo spiegare come mai una persona ci attrae, sia in amore, sia in amicizia. La nonna di una mia paziente lasciò il marito per andare a Roma: voleva vedere Mussolini perché aveva sentito i discorsi alla radio. Diceva “quello sì che è un uomo”, e chiamava il marito – un omino silenzioso che badava all’orto – “il neonato”. Una cosa tragica. Questa donna fece una sua personale marcia su Roma per un innamoramento campato in aria».Però, scrive, c’è un amore che precede quello tra uomo e donna: l’amore per la città.«Quando ero adolescente passavo lunghe ore a girare da solo per Milano, a piedi o in bicicletta, e mi piaceva restare qui ad agosto quando la mia famiglia andava in montagna o al mare: rimanevo con la città misteriosa. Lì mi facevo una mappa mia. Non sono mai riuscito a immaginarmi fuori da una città. Ma mia moglie ama molto la natura, e questa è stata, a volte, l’unica difficoltà tra di noi. Così due anni fa abbiamo comprato una casa in Liguria, in collina, non proprio al mare. Un po’ mi sono ricreduto: è un posto magnifico, in mezzo ai lupi e ai cinghiali. Penso comunque che la dimensione metropolitana, almeno per me, sia indispensabile. Quelli che dicono “me ne vado” sono dei sentimentali, come i sessantottini che, siccome la rivoluzione non arrivava, se ne sono andati a fare olio e vino, e poi si sono accorti che di olio e vino in Italia se ne produce fin troppo».Scrive “Nell’uomo che ha residenza stabile si nasconde un rimorso ancestrale per il nostro vero io collettivo, che è nomade”. Come ci si può ricongiungere, anche solo simbolicamente, con questo nostro io?«Un modo è il viaggio. Io sono un introverso ma ho viaggiato molto. I colleghi junghiani sono stati generosi e mi hanno offerto una grande opportunità, perché a un certo punto mi hanno messo alla presidenza dell’internazionale, e ho girato dappertutto, conoscendo l’anima dei Paesi da dentro. Insieme a mia moglie abbiamo partecipato alla creazione delle società junghiane cinese e argentina. Due luoghi molto diversi e ugualmente interessanti. In Argentina c’è il più alto tasso di analisti e psicologi del mondo, però non c’erano gli junghiani. Per pochi soldi comprai un appartamentino a Buenos Aires e seguii la formazione di molti di loro».Che cos’è per lei Jung? Un genitore spirituale, un vecchio amico?«Un grande maestro. Io però ho avuto problemi con l’identità maschile tradizionale, nel senso che ero timido e riservato. E vedendolo nei filmati, mi dà l’idea di essere stato un uomo molto forte, che metteva soggezione: non so se sarei andato da lui in analisi. Riesco però a relazionarmi con i suoi scritti. I suoi testi sono in gran parte conferenze di cui lui aveva una traccia: una volta lì improvvisava e poi c’erano altri che prendevano appunti. Un caos, ma molto affascinante».Scrive: “L’uomo è un animale sociale, ma entro certi limiti, finché permane la sensazione di un ‘noi’ omogeneo”. Che cos’è, dell’altro, a farci così paura?«La spiegazione scientifica degli etologi umani è la pseudo-speciazione. In linea di massima, all’interno della specie c’è una certa solidarietà; anche gli animali carnivori e competitivi si danno un ordine, dei regolamenti. Noi, diceva l’etologo Konrad Lorenz, siamo solo parzialmente carnivori e non abbiamo queste limitazioni dell’aggressività. A differenza dell’essere umano originario, non viviamo più in piccole bande dove tutti si conoscono. Nell’arco di una vita, un nostro antenato incontrava duecento persone: noi ne incontriamo duecento in una giornata. La pseudo-speciazione ci dice che, di una persona diversa, bisogna sospettare. E se uno non è sufficientemente acculturato, l’istinto si chiude come se il diverso appartenesse a un’altra specie. La paranoia è una mancanza di dimensione interiore, e la pseudo-speciazione è un processo simile, in cui le persone più semplici, magari seguendo il leader grossolano, dicono: questi non sono umani come noi. Ho visto di recente Io Capitano di Matteo Garrone, e mi è sembrato il bel primo tempo di una bella fiaba. Perché arrivano e trionfano tutti, ma non ci dicono cosa succede dopo, quando incontrano i politici italiani».La cito di nuovo: “Spesso crediamo a lungo, anche tutta la vita, di volere qualcosa. Poi i fatti ci dimostrano che, senza saperlo, volevamo qualcos’altro: persino il contrario”. Come ci salva dalla strada sbagliata?«Mi viene in mente un giovane paziente difficilissimo, molto distruttivo e autodistruttivo, che perseguiva con la sua grande intelligenza una carriera universitaria. Era ricercatore, combatteva, voleva diventare associato, poi ordinario. Si sentiva più portato per una branca di ricerca, solo che fino a quel momento aveva puntato su un’altra, limitrofa ma che amava meno. Gli chiesi perché non cambiava. “Perché dovrei confessare a me stesso di aver sprecato gli anni più importanti della mia vita”, rispose. Io rimasi un po’ così, e gli dissi: “Guardi, ho una certa età, faccio questo mestiere da cinquant’anni, e le dico che ho incontrato due tipi di pazienti: quelli che avevano buttato via un pezzo consistente della loro vita, e quelli che l’avevano buttata via tutta”. Non credo esistano persone che imbroccano subito la strada. Forse Mozart, ma non mi è capitato di avere Mozart in analisi, perciò non saprei cosa ne pensa lui».