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 2023  ottobre 14 Sabato calendario

Un giorno a Gaza


Ogni mattina, da una settimana, Safwat non sa se siano peggio le bombe da una tonnellata o i pianti della moglie: «In casa non c’è più niente. Ed è già tanto che abbiamo una casa…». Da sedici anni, le giornate a Gaza si somigliavano tutte e Safwat aveva un solo pensiero: come andarsene. Da sette giorni, peggiorano di ora in ora e ha un solo istinto: come sopravvivere. «Siamo come la batteria dei nostri cellulari, guardiamo la percentuale scendere e non sappiamo dove attaccarci. Per favore, non offenderti se non ti rispondo…».
Una scrittrice gazawi, Selma Dabbagh, qualche anno fa scrisse un romanzo – «Fuori Gaza» – che raccontava la vita quotidiana della Striscia: comprare le merci dai tunnel, far benzina alla moto, addormentarsi sognando d’andarsene… Un’altra era: dentro Gaza, la benzina oggi non si vende, perché serve a fare funzionare i generatori degli ospedali. L’acqua non ha prezzo, perché chi ce l’ha se la tiene. Il pane nemmeno, perché nessuno lo fa più. La mattina non ci si sveglia, perché non si dorme. E la sera non ci s’addormenta, perché bombardano sempre. Gaza è ormai un «buco infernale», dice l’Unrwa, l’agenzia Onu dei profughi: «E questa decisione orrenda d’evacuare un milione di persone porterà solo a una miseria senza precedenti. Spingerà ancora di più tutti nel baratro. Sull’orlo del collasso».
Se una fine spaventosa è meglio d’uno spavento senza fine, a Gaza 2023 si sfiorano entrambe le possibilità. Uno su quattro ha perso la casa e dorme per terra, all’aperto, o dove può. «Ho perduto la famiglia, la casa e adesso la fiducia – dice Plestia Alaqad, 29 anni —. Nessuno sa che fare, dove stare. Gaza City non esiste più, è una città fantasma».
Non c’è il pane e non ci sono neppure i pesci, che nei momenti peggiori han sempre risolto la fame dei gazawi: le barche dei pescatori sono tutte distrutte.
I feriti
I 760 posti degli ospedali sono raddoppiati: ogni letto ospita due persone
I farmaci stanno scomparendo: specie l’insulina, le soluzioni per le dialisi, gli antidolorifici, gli antiepilettici, gli antiasmatici. Un istituto per disabili, a Beit Hanoun, non sa come evacuare quaranta persone: le ambulanze servono a portare di corsa i feriti. Le scuole sono diventate rifugi per gli sfollati, i 760 posti letto degli ospedali sono raddoppiati perché in ogni letto si mettono due persone, le altre buttate sui corridoi, sulle scale, negli scantinati. «Questi giorni non li dimenticheremo mai – è il messaggio di Karam Jad, 22 anni, a un’Ong italiana – Questo potrebbe essere il mio ultimo giorno di vita. Nessuno sa che cosa succederà».
Si mandano messaggi, finché dura la carica dello smartphone. O video terribili, per far capire. Il primo: il ragazzino su una barella dell’ospedale di Shifa, che non ha più la faccia ed è una mummia di garze.
Il papà è su una barella di fianco e non ha più la mano, un moncherino fasciato. Il padre piange e accarezza il piccolo, con quel che resta del braccio. Il figlio non vede nulla, ma tra le bende capisce la disperazione: «No, papà, non avere paura, sii forte, io sto bene…».
Secondo video: c’è una montagna di macerie, uno dei mille palazzi di Gaza City abbattuti, si scava frenetici e in una fessura sotto le tonnellate di cemento collassato, dal buio, illuminata da una pila dei soccorritori, spunta una mano ingrigita di polvere. È viva. Per qualche secondo agita quattro dita, picchia la pietra, invoca aiuto senza che da là dentro nessuno esali un grido. Poi la mano rallenta, si ferma, non ce la fa. Un tremito finale. Non si muove più.
Li avete visti quei video? Inutile chiederlo ai soldati che fuori Gaza scavano trincee, installano ponti radio, puntano i tank, s’apparecchiano all’occhio per occhio, strage per strage. Hamas ha fretta di lanciare gli ultimi razzi; Tsahal, il primo assalto. E dentro Gaza, a chi si prepara a morire, non resta che instagrammare.