Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2023  ottobre 15 Domenica calendario

L’unico ricordo di Carnevale di Sandro Veronesi

Per ragioni che non ricordo bene, riguardo al Carnevale posso parlare solo da lontano, da molto lontano — quanto me ne sono sempre tenuto io. Per timidezza, immagino, da bambino, e in seguito perché ormai mi ero formato così. Mai mascherato, mai a una sola festa mascherata. Niente.

Però ho un ricordo di Carnevale che guizza ancora nella memoria, dopo più di trent’anni. Il ricordo di un incrocio (col Carnevale) a un incrocio (stradale). Era una di quelle notti romane che non sono romane, col freddo, la pioggerellina e una certa surreale (a Roma) foschia, che anche dopo aver schiarito con la manica il parabrezza appannato continuava a offuscare ogni cosa. Era tardi, ma non tardissimo. Stavo guidando verso casa, ma non ricordo da dove tornassi. Sicuramente pensavo ai fatti miei. Provenivo dal Circo Massimo diretto verso il fiume e d’un tratto, in quella foschia, all’incrocio col lungotevere Aventino, in quello slargo che ora, controllando, scopro chiamarsi largo Amerigo Petrucci, ex sindaco di Roma, ma soprattutto davanti al porticato della chiesa di Santa Maria di Cosmedin, sotto il quale sta la celebre e clementissima Bocca della Verità, che mai si stanca di non mozzare la mano a tutti i bugiardi che ce la infilano dentro, ho visto comparire un grumo scuro che si muoveva. Era proprio in mezzo alla strada. Ho rallentato.

Era una composizione tra due cose inanimate e figure danzanti. Le cose inanimate erano due macchine, scure, una più grande, una più piccola, accartocciate l’una nell’altra; le figure danzanti erano persone mascherate, divise in due gruppi: c’erano nobiluomini e nobildonne, tutti vestiti sontuosamente, con parrucche, tricorni, abiti con lo strascico e velette, e supereroi della saga di Batman (Batman stesso, Catwoman, Joker, Pinguino — non c’era Robin). Avvicinandomi, mi sono reso conto che non stavano danzando, si stavano menando. Volavano cazzotti, spinte, calci, soprattutto tra i maschi, accompagnati da insulti poderosi, veicolati principalmente da voci femminili. Ero sbalordito, e anche emozionato, perché ero convinto si trattasse di un’allucinazione. Mi sono fermato a osservare. In realtà era proprio una danza: danza moderna, senza dubbio, jazz, tutta slanci e assalti e tentativi di capocciate, accompagnata da una cantilena a cappella che celebrava i sordidi natali dei danzatori. Mi è venuto in mente Pietroburgo di Andreji Belyj, le ombre che popolano le sue notti, i fantasmi che sgomitano nelle sue pagine, perché quello stavo vedendo: ombre che si agitavano, fantasmi che combattevano — per motivi che non capivo.

Sono rimasto lì, in macchina, fermo in mezzo all’incrocio, col finestrino abbassato, a guardare. Finché il groviglio si è sciolto, il coro si è interrotto, e uno dei nobiluomini, con la giacchetta strappata e la parrucca di sghimbescio, si è avvicinato al finestrino e mi ha detto: «E tu che cazzo vuoi?». Dietro di lui Catwoman ha chiarito il concetto: «Fatti i cazzacci tuoi». Giusto, ho pensato. Hanno ragione. Sono beghe tra fantasmi, gli umani non dovrebbero vederle. E sono andato via. Soltanto dopo, a casa, raccontando quella visione all’amico pittore con cui dividevo l’appartamento, sono stato informato che non si trattava di fantasmi ma di una manica di coatti, perché era la notte del Martedì Grasso — cosa che io, nella mia siderale distanza dal Carnevale, non sapevo e non avevo nemmeno sospettato.

Peccato, però. Preferivo i fantasmi.