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 2023  ottobre 13 Venerdì calendario

Sui marciapiedi di New York

Ci sono libri che suonano come canzoni. Succede perAutoritratto newyorkese,
ultimo romanzo di Maurizio Fiorino, capace di evocare la stessa malinconia tossica, sabbiosa e fatale di certe canzoni dei Velvet Underground,Candy Says, Sunday Morning o I’m Waiting for the Man.
Come la voce di Lou Reed, la scrittura di Fiorino – 39 anni, un percorso che mette insieme la fotografia e la scrittura, con vari romanzi all’attivo, tra i quali Amodio eMacello– è dolce e disperata mentre racconta in prima persona il trasgressivo bildungsromandi un italiano sui vent’anni che dal Sud d’Italia si trasferisce a New York per frequentare una scuola di fotografia. Siamo nei primi Duemila e vivere con pochi soldi nell’orbita scintillante della metropoli è un’impresa; si rischia continuamente di implodere, di essere sputati in qualche galassia lontanissima o di sparire senza lasciare traccia come ignota materia cosmica.
Il protagonista del romanzo, che con il suo autore sembra condividere molte tracce biografiche (nella nota che chiude la narrazione, si citano solo discrasie temporali riguardo ad alcune mostre d’arte, come ad avvalorare l’identificazione tra personaggio e scrittore), è un giovane fotografo che sbarca in America cercando la sua strada: è omosessuale e ha alle spalle una turbolenta infanzia di provincia al Sud, con un padre depresso e una madre stremata. Quando incontra (tramite un annuncio su Craiglist, antesignano dei social) il diciannovenne Lou, che viene dal New Jersey, ha una famiglia disastrata e assente e si mantiene con piccoli lavoretti, talvolta prostituendosi, i due finiscono per formare una coppia. Passano da un appartamento in affitto all’altro, con sistemazioni di fortuna in case infestate dalle blatte e con coinquilini inquietanti, e gli impieghi che trovano e perdono sono precari e mal pagati: le solite pizzerie finto italiane, ma anche un solarium aperto 24 ore al giorno e un locale di spogliarello maschile. Finiscono così per prostituirsi sempre più spesso, incontrando un campionario umano di uomini più adulti ma non meno perduti di loro: ricchi galleristi, manager, uomini d’affari che cercano nel sesso qualcosa – sollievo, perdizione, umiliazione – che è sempre un po’ più in là.
Il protagonista, più lucido del suo amante Lou, intuisce bene che ciò quello spasimo nasconde, nemmeno troppo in profondità, una pulsione di morte: «se da un lato offrivo la mia giovinezza al miglior benefattore, dall’altro, come in un intreccio di lacci dal quale è difficile sbrogliarsi, s’infilava nel mio cervello un’idea malsana e legata indissolubilmente al declino umano».
I soldi guadagnati in alberghi a cinque stelle, nelle salette private di certe saune maschili, nel retro delle discoteche gay, finiscono rapidamente sperperati ad Atlantic City o in ristoranti di lusso, così che nel giro di poche ore lo scenario della loro vita torna a essere quello di sempre. L’odore di queste pagine non è il profumo frizzante della Manhattan del Metropolitan Museum che pure compare nel romanzo, perché da qualche parte il protagonista sa che solo la bellezza potrà forse salvargli la vita, ma la puzza dei marciapiedi che nessuna gentrification può nascondere, l’odore pesante del cibo dei diner a poco prezzo e delle buste di plastica dei supermercati. Pensiamo tutti di conoscerla questa New York emblema supremo della solitudine, pensiamo tutti di averla già vista o sfiorata, se non perché l’abbiamo vissuta, perché l’abbiamo letta e guardata nei film infinite volte. Proprio per questo raccontarla un’altra volta senza cadere nei cliché è un’impresa rischiosa. Fiorino ci riesce, perché mantiene lo sguardo acuto di chi non fugge dal dolore ma lo conosce, lo maneggia, sa trovare le parole per dirlo, e così fa sembrare questo suo seminario sulla gioventù qualcosa di vivo e pulsante e vero. Lasciando che alla fine il giovane che forse somiglia a ciò che stato afferri un coriandolo di speranza, e si incammini verso il suo futuro.