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 2023  ottobre 13 Venerdì calendario

Nell’officina di Italo Calvino

Strano destino quello di Italo Calvino, narratore, intellettuale, uomo di editoria. E strana vicenda quella della sua fortuna. Così ne sintetizza il grafico, tra oscillazioni e impennate, un esperto come Mario Barenghi, di cui oggi è in edicola, in abbinamento al «Corriere della Sera», il volume Italo Calvino. Le linee e i margini, a cento anni dalla nascita dello scrittore (Cuba, 1923 – Siena, 1985): «Anno più anno meno, per tre decenni circa, a partire dal folgorante esordio del Sentiero dei nidi di ragno, Calvino è stato considerato uno scrittore brillante ma atipico, se non addirittura marginale: un narratore di vaglia e di talento, ma non molto rappresentativo dei valori e delle tendenze del panorama letterario nazionale. Poi, in un arco di tempo piuttosto breve – grosso modo, fra Se una notte d’inverno un viaggiatore (1979) e le postume Lezioni americane (1988) – è stato promosso a grande classico della narrativa del secondo Novecento». È a quel punto, continua Barenghi, che Calvino è diventato, in quanto dominatore assoluto e quasi Scrittore Unico per la scuola, un bersaglio polemico da parte di coloro che gli oppongono questo o quello tra gli autori suoi contemporanei, magari classicizzati più precocemente di lui e poi finiti in una specie di cono d’ombra.
Sono le intermittenze e le fluttuazioni del Canone: quelle che appassionano i sociologi della letteratura e che un po’ fanno riflettere anche il semplice lettore, mosso da pura passione. Calvino è stato uno che ha messo a fondo le mani nell’officina del raccontare, nel laboratorio della narrazione. All’inizio, appena fuori dalla guerra e dalla Resistenza, ha impastato una lingua quasi orale e ha orchestrato un racconto che adotta, con conseguenze decisive, l’ottica di un bambino, spaesato nella storia e nel mondo dei grandi. È appunto la brillante riuscita de Il sentiero dei nidi di ragno (1947), con protagonista il piccolo Pin. Tornando, a tanti anni di distanza, su quel mondo, Calvino ne spiegò la genesi e il significato in una celebre prefazione, datata 1964. Le storie, dice Calvino, erano nell’immediato dopoguerra in bocca a tutti, una folla di racconti orali si offriva allo scrittore, che se ne impossessava, li mescolava ai propri, li rimaneggiava. Fu una specie di «smania di raccontare», a cui lo scrittore aggiungeva il proprio gusto per la narrazione e il proprio mestiere. «Fu Pavese», nota Calvino nella prefazione del 1964, «il primo a parlare di tono fiabesco a mio proposito, e io, che fino ad allora non me n’ero reso conto, da quel momento in poi lo seppi fin troppo, e cercai di confermare la definizione».
La Resistenza
Una folla di racconti orali si offriva al romanziere, che se ne impossessava e li mescolava ai propri
Seguendo l’intuizione pavesiana, Calvino si era intanto calato nel mare delle fiabe della nostra tradizione, con la raccolta curata nel 1956 (Fiabe italiane). Nella densissima introduzione al volume diceva a un certo punto il raccoglitore-narratore: «Io credo questo: le fiabe sono vere». Poi discorreva di «catalogo dei destini» e ancora della «infinita possibilità di metamorfosi di ciò che esiste».
Sguardo sul futuro
Colpiscono oggi certe anticipazioni: l’intelligenza artificiale, la narrazione demandata alle macchine
Siamo già nei pressi di una particolare esperienza: quella di un operatore che combina e intreccia racconti, invitando il Lettore a perdersi nei meandri del Libro, ammiccando magari alla semiologia e allo strutturalismo. Bisognerà allora citare – da un Calvino saggista sempre da tenere in considerazione, così come l’epistolografo, in dialogo con colleghi, amici, interlocutori anche spinosi (ad esempio il Fortini di cui parla Barenghi) – un celebre scritto, intitolato Cibernetica e fantasmi (Appunti sulla narrativa come processo combinatorio), risalente al 1967. Impressionante oggi per certe anticipazioni sull’intelligenza artificiale, sulla narrazione demandata alle macchine, esso è anche colmo di indicazioni su una poetica in evoluzione: quella che porterà a Il castello dei destini incrociati e a Se una notte d’inverno un viaggiatore. Vi si dice ad esempio: «Vediamo qual è la mia reazione psicologica apprendendo che lo scrivere è solo un processo combinatorio tra elementi dati: ebbene, ciò che io provo istintivamente è un senso di sollievo, di sicurezza». È il Calvino lettore e ammiratore di Borges, maestro infatti citato nelle Lezioni americane. Nell’ultima di esse si fa l’elogio della molteplicità dei mondi romanzeschi, che forse sono la rivelazione di un nostro insospettato fondo: «Ogni vita è un’enciclopedia, una biblioteca, un inventario d’oggetti, un campionario di stili, dove tutto può essere continuamente rimescolato e riordinato in tutti i modi possibili».
Un sottile filo di continuità e di sviluppo è teso tra gli inizi del Sentiero dei nidi di ragno e questo autore-combinatore di storie. Eppure, se dovessi citare un titolo, un solo titolo calviniano, penserei al racconto lungo La nuvola di smog (1958), dove un «io», un Soggetto, è bene in evidenza, posto di fronte alla nube di grigiore che incombe sulla sua vita di essere comune, anonimo, e posto di fronte al camaleontismo di un potere che si presenta come medicina dei mali che esso stesso genera. È forse la prima cosa che ho letto di Calvino, ferma nella memoria: «Ci sono quelli che si condannano al grigiore della vita più mediocre perché hanno avuto un dolore, una sfortuna; ma ci sono anche quelli che lo fanno perché hanno avuto più fortuna di quella che si sentivano di reggere».