Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2023  ottobre 12 Giovedì calendario

Intervista a Franckie Dettori

Non è un filosofo, Lanfranco Dettori, «solo» un fantino che a quasi 53 anni si sta per ritirare dopo 35 stagioni da più forte jockey del mondo.
Eppure è tra i pochi a poter rispondere: quando si sopravvive alla morte, come nello schianto del suo aereo privato nel 2000 in cui morì il pilota e lei fu salvato dal collega Ray Cochrane prima che il relitto esplodesse, si rivoluzionano priorità e rapporti con le persone? O la routine si riprende la vita?
«Con il senno di poi sarebbe stato meglio se avessi cercato aiuto da psicologi. Perché per due anni non ero più io. Mi ero perso. Quando ti succedono queste cose, ti fai un sacco di domande: perché è successo proprio a te, perché altri sono morti e tu no, come avresti lasciato moglie e figli. Brutto, era come il cane che rincorre la coda. Era una nuvola che io neanche vedevo ma c’ero dentro. Ci ho messo due anni per uscirne e mi ha cambiato la vita. Nel male. Ma anche nel bene. Perché prima ero ferocemente concentrato sul successo, sul conquistare sempre più titoli, ma... forse non era così importante».
Peraltro voi fantini fra gli atleti rischiate ormai più dei piloti di F1, forse solo quanto i piloti di moto e i pugili.
«A livello mondiale il tasso di mortalità di fantini è due all’anno, che è già altissimo e per di più non tiene conto di tutti gli incidenti con fratturati e feriti, come il mio amico Frederik Tylicki su una sedia a rotelle dal 2016. Io stesso ho visto morire un fantino in corsa, Steve Wood, a Lingfield nel 1994: era di fianco a me, cadde, e un cavallo da dietro lo prese in pieno».
Si convive con la paura?
«L’adrenalina che ti dà un cavallo lanciato a 60 all’ora, davanti a 50.000 persone, con la pressione del gran premio, batte dieci a zero la paura di farti male. È come una droga che ti anestetizza».
È conosciuto anche da chi mai è stato all’ippodromo: vivere dovunque come una rockstar gratifica o asfissia?
«Chi ti suona il clacson per strada, chi ti chiede un selfie, chi vuole l’autografo... Ma è una cosa che ti fa sentire bene, inutile negarlo».
Estroverso, «Frankie il ragazzo che sorride», perfetto per i media, aneddoti sulla Regina, il «salto dell’angelo» come gesto iconico: ma ci è o ci fa? È spontaneo o recita il ruolo che l’ha fatta diventare star globale?
«Da giovane uno cerca di “vendere” se stesso al pubblico e ai proprietari per avere la disponibilità di buoni cavalli nei gran premi. Come l’attore sul palco: uno si rende disponibile anche se a volte non ne avrebbe voglia, poi quando si chiude il sipario si torna a casa magari pure scorbutici. Il mio è anche uno sport di intrattenimento, e questo o lo accetti e te lo fai piacere, o lo trovi irritante e lo patisci».
Tamberi ha vinto i Mondiali di salto in alto dopo aver rotto con il padre allenatore. Lei, a 14 anni, solo, fu spedito in Inghilterra da suo padre Gianfranco (13 scudetti anni ’70), tra gente sconosciuta, senza sapere la lingua, a fare un duro apprendistato nelle albe gelate: l’ha più odiato all’epoca o più ringraziato oggi?
«Ho avuto poi anni di discussione su questo con mio padre. Gli dicevo: ma se mi fossi fatto male o per qualunque altra ragione io non avessi più potuto avere una carriera da fantino, mentalmente poi come mi sarei ritrovato? Un fallito? Un depresso? E lui mi rispondeva: ma guarda chi sei diventato adesso, il n.1 al mondo! Dal suo punto di vista aveva ragione. Però io non riuscirei mai a fare lo stesso con i miei figli. Mai, mai».
Ha subito atti di bullismo?
«Altroché! Negli anni ’80 per gli inglesi ero davvero molto straniero, dovevo stare con gli occhi aperti tra chi mi tirava una scopa e chi uno schiaffo... Inoltre ero dislessico e a scuola ero quasi sempre l’ultimo della classe, facevo molta fatica a seguire. Oggi mi dispiace non riuscire a leggere bene per la mia età né in inglese né in italiano, oggi è tutto un altro mondo e ci sono specialisti che supportano i bambini a scuola».
Il fantino migliore è quello che non perde le corse che chiunque al posto suo vincerebbe, o quello che vince le corse che nessun altro saprebbe vincere?
«All’inizio in Inghilterra ho avuto nell’allenatore Luca Cumani un grandissimo insegnante, e lui mi dava sempre sfide improbe con cavalli che mi mettevano in difficoltà, io stavo male e dicevo “ma perché?”, e lui rispondeva che dovevo trovare la chiave di tutti i cavalli perché tutti i cavalli sono diversi uno dall’altro. E aveva ragione. Il resto te lo possono insegnare, ma la chiave di un cavallo te la devi trovare da solo, è il segreto del mio mestiere. Non per niente il cavallo fa miracoli con disabili, non vedenti e non udenti: ha un sesto senso, devi entrare nella sensazione di un tutt’uno con lui, bisogna trovare un linguaggio».
Quanto guadagna?
«Scusi ma è personale. Ci sono i contratti con le grandi scuderie, le pubblicità, la percentuale sui premi vinti dai cavalli che monto».
L’adrenalina
«Galoppare a sessanta all’ora davanti a 50 mila persone
fa passare ogni paura»
Quant’è la percentuale?
«In Europa il 7%, negli Stati Uniti il 10%».
I suoi cavalli hanno vinto almeno 220 milioni. Come impiega i suoi soldi?
«Da giovane, finché ero single, ho avuto anche quattro Ferrari, poi ho costruito casa con la famiglia, quindi ho pagato le scuole private per i miei cinque figli, che qui in Inghilterra costano un botto. Una volta potevo dire di essere ricco, adesso meno...».
Il campione 2021 dei fantini inglesi Oisin Murphy è tra i tanti ad aver avuto problemi di droga o alcol, e anche lei, dopo una ragazzata nel 1993, in Francia nel 2012 a 41 anni fu squalificato 6 mesi per una positività alla cocaina. Quale debolezza nascosta vi rende fragili?
«Forse il fatto che siamo tutti matti per fare il lavoro che facciamo, tutti un po’ suonati dentro: è un mestiere ad alto rischio e forti pressioni, e forse si cerca l’adrenalina che non si trova fuori dalle corse. Quando sei da solo, un pesciolino rosso nella vasca, e ti giri e non c’è nessuno con te, la pressione diventa enorme e ti sembra che l’acqua bolla».
Le sue 3.500 vittorie sono meno delle 13.000 del brasiliano Jorge Ricardo, ma nessuno come lei vanta un gran premio ogni cinque vittorie: oltre 750, di cui quasi 300 «gruppi 1». E a 53 anni potrebbe continuare un paio d’anni: perché appende ora la frusta al chiodo?
«Ero a una partita importante di Champions League e c’era Ronaldo in panchina: caspita, mi son detto, il migliore giocatore del mondo è messo in panchina, io non voglio finire così, io non voglio sentirmi così. Poi c’è l’incognita del fisico per l’età e gli infortuni. E poi è un momento di cambio della guardia dei trainer: hanno 25 anni meno di me, e facciamo fatica a capirci...».
Nel nuoto è caduto l’ultimo record mondiale di Federica Pellegrini dopo 14 anni: tra i suoi quale sarà il più difficile da battere? I 6 Arc de Triomphe? I quasi 300 «gruppi 1»? O tutte e sette le corse del Champion’s Day di Ascot il 28 settembre 1996?
«Il 7 su 7 di Ascot che nello sport mi ha reso immortale, ancora oggi io non so dire come sia successo. Pensi che della quinta corsa non mi ricordo niente, ho un blackout totale nella mente. Zero. Ero in trance. Si vede che il cervello era pieno di cose che non riusciva più a processare...».La prima da non fantino?
«Andrò a sciare a Cervinia: la vacanza più bella perché l’unica coi figli tutti assieme».