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 2023  ottobre 12 Giovedì calendario

Vedere il vuoto

Un giorno Gabriele Basilico porta la prova di un libro che sta realizzando, La città interrotta, alla maestra di yoga con cui praticano lui e la moglie Giovanna. Sono presenti altre persone, che si assiepano intorno mentre sfoglia le bozze. A un tratto una signora si mette a piangere e sbotta: «Ha mostrato Milano troppo triste e brutta».
Non aveva torto. Basilico non si è mai preoccupato se quello che fotografava – strade, piazze, palazzi, monumenti, paesaggi – fosse bello o brutto: era semplicemente quello che si vedeva, come lui vedeva. Ma come vedeva Gabriele Basilico? L’ha scritto in modo esplicito in una frase ora riportata all’ingresso della sua mostra aperta a Palazzo Reale di Milano (Le mie città, a cura di Giovanna Calvenzi e Filippo Maggia, Electa, da domani all’11 febbraio 2024): «Fotografo il vuoto come protagonista di sé stesso, con tutto il suo lirismo, con tutta la sua forza, con tutta la sua umanizzante capacità di comunicazione, perché il vuoto nell’architettura è parte integrante, persino struttura del suo essere».
Non è facile vedere il vuoto. Spesso lo ignoriamo, preferendo guardare il pieno, ma una città – questo è il centro del lavoro poetico di Basilico – è fatta di vuoti, di spazi inconclusi, di luoghi brutti, abbandonati, di palazzi e case tristi. Per lui, lo ha detto più volte, una casa bella e una brutta sono ugualmente degne d’essere fotografate. Quel progetto, La città interrotta (1995-96), che aveva così emozionato la signora, voleva mostrare la Milano che non era stata completata, che era rimasta inconclusa, interrotta appunto. Solo uno sguardo empatico permetteva a Basilico di vederla e di amarla senza riserve.
Nell’altra mostra di questo dittico che la sua città natale ora gli dedica –Milano (a cura di Giovanna Calvenzi e Matteo Balduzzi, Electa, da domani al 7 gennaio 2024) alla Triennale – ci sono le varie stagioni del suo lungo rapporto la città. Tutto comincia nel 1976 con gli scatti del “proletariato giovanile” e poi i ritratti delle periferie: Quarto Oggiaro, il Gallaratese, Baggio, la Barona. Poi tra il 1978 e il 1980 comincia a fotografare le fabbriche. Ci va alla domenica quando non c’è nessuno in giro e sono chiuse. Non sa che la deindustrializzazione di Milano è già cominciata. Ha visto il lavoro di Bernd e Hilla Becher ed è rimasto folgorato. Trova le forme e i volumi dei due fotografi tedeschi in quelle zone marginali della città. Si ispira a Walker Evans e al suo modo di guardare gli edifici. Se si osservano quelle immagini che poi sono diventate
Ritratti di fabbriche, si noterà che non c’è una sola nuvola in cielo. La luce è omogenea, una luce pulita, tersa.
Per finire quel lavoro impiega due anni. Usa una espressione che poi gli amici gli ripeteranno come una cantilena: «Magica sospensione luminosa». Magica è la parola chiave di quel lavoro che ha trasformato un giovane in un maestro della fotografia italiana e internazionale. Lì ci sono ombre che nelle foto monumentali dei Becher non appaiono. Poi le ombre, i pali della luce, i cartelli stradali, come le automobili e le motociclette entreranno nei suoi scatti, in quelli milanesi come inquelli che comincerà a fissare in giro per il mondo. Dappertutto c’è il vuoto anche là dove sembra di cogliere un troppo pieno, un eccesso di dettagli, uno sguardo che sembra sempre più ampio e desideroso d’includere il tutto dentro il riquadro fotografico.
Le immagini di Basilico si compongono attraverso questa propensione al tutto, per cui anche se ci si avvicina alla fotografia, anche se la si esplora con cura, non si coglieranno quasi mai i dettagli che la compongono, soprattutto se si tratta di megalopoli viste da distante, da un luogo elevato. L’immagine è un insieme pieno,mentre il vuoto diventa la condizione in cui si guarda, e anche si vive, la città ritratta.
Alcune di queste città senza confini, estese in ogni direzione, città slabbrate e informi, città continue, per dirla con Italo Calvino, stupiscono: attraggono e insieme respingono. Lo sguardo di Basilico scava lì dentro e fa capire che il formicaio visto da lontano è pieno di vuoti, di spazi sgombri, solitari e disabitati, poiché la città è un tutto possibile e insieme impossibile, e le due cose, il pieno e il vuoto, convivono nel medesimo universo edificato. Capire la bruttezza è possibile solocon uno sguardo partecipe, e le nostre città, salvo forse quelle storiche, spesso sfregiate e deturpate, sono brutte. Basilico ama questa duplicità, come la può amare un architetto che è diventato fotografo, e perché ama prima di tutto Milano.
L’ha ripetuto più volte: lui preferisce il cemento al marmo. Se sale in cima al Duomo di Milano, fissa ciò che c’è intorno, non i pinnacoli e le guglie, piuttosto la città formicolante lì sotto e quella più lontana di palazzi e torri svettanti. Col passare degli anni Basilico ha imparato a guardare dall’alto, prima usando una piccolascala o sbucando dal tettuccio di una R4 decapottabile, poi cercando il punto alto, distante. Questa lontananza del punto di vista non significa né distanza né indifferenza, ma desiderio di afferrare con l’occhio quanto più possibile, oppure immergendosi dentro le città – la Roma di Piranesi come la Montecarlo di svincoli e accumuli edilizi – diventando lui quella formica che si scava nel pieno il vuoto della visione intestina.
C’è poi il lato scenografico, teatrale, che è quello che ogni italiano della sua generazione, e non solo, possiede come un fatto naturale, perché il nostro paesaggio è composto da quinte e la piazza è la più evidente di queste. Teatro oculare, ma anche teatro sensibile del vissuto, che non sembrerebbe inseribile in nessuna fotografia se non nelle nature morte come facevano gli artisti nel Seicento su tele o tavole. L’effetto catalogo che appare dominante nel suo lavoro non è quello dei Becher; piuttosto è la conseguenza d’una bulimia di conoscenza. Così la curiosità visiva ed esistenziale di Basilico non sembra esaurirsi di viaggio in viaggio. E poi c’è la sua città con «l’oblio discreto», come l’ha definita Stefano Boeri, «l’opaca, talvolta ambigua tendenza di Milano di non interrogarsi sulla sua identità di grande città produttiva» (Roberta Valtorta). Delle tre Milano individuate dalle immagini di Basilico – la città monumentale, la città moderna dei grattacieli e la città delle periferie – è all’ultima che va la sua preferenza, senza ideologie, senza denunce o rabbie, con molta passione per l’inconcluso, l’indeterminato. Perché con le sue immagini Basilico costruisce città da abitare, città che sono già abitate, ma ancora da completare.