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 2023  ottobre 12 Giovedì calendario

Intervista a Franckie Dettori

Frankie Dettori, lo sente ancora il richiamo dell’erba?
«Sì, come se fosse il primo giorno. Ed è per questo che non mi fermo».
In che senso? Non era il suo tour d’addio?
«Lo era. Perché in questi ultimi giorni ho capito che è giusto andare avanti.
Con mia moglie abbiamo deciso di trasferirci in California, un anno e poi vediamo».
Lo dà così l’annuncio che tutto il mondo dell’ippica aspettava. Tra citofoni che suonano e rumore di trasloco. «Stiamo preparando tutto, abbiamo affittato la nostra casa londinese e stiamo organizzando il trasferimento. Ancora due convegni in Europa poi via per Santa Anita e una nuova avventura». Dettori sarà il protagonista assoluto domenica della giornata organizzata da Snaitech a San Siro, poi dopo Milano l’addio al suo secondo o, meglio, primo ex aequo Paese, l’Inghilterra, il 21 ad Ascot. E poi sarà California.
Dettori, perché lo fa?
«Perché in questo tour ho capito due cose».
La prima?
«Che la gente mi ama ancora. Ho sentito un entusiasmo in tutte queste tappe in giro per il mondo che non credevo possibile».
La seconda?
«Che sono ancora competitivo. Posso vincere ai massimi livelli, mi sento in grado di gareggiare alla pari con i giovani talenti americani. Non lo credevo possibile, un anno fa. Negli Stati Uniti sarei potuto andare dieci anni fa, chissà quanto avrei vinto...».
Dopo tremila e passa vittorie, che cosa significa per lei vincere?
«È tutto, è ciò che ti spinge ogni giorno a correre e che ti fa passare la fatica, i dolori».
C’è anche l’altra faccia, però, la sconfitta. A Wimbledon, luogo sacro come Ascot, all’ingresso del campo centrale c’è impressa una frase di Kipling “Che tu possa incontrare il trionfo e il disastro e fronteggiare quei due impostori nello stesso modo…”.
«Come sapete, ho vinto molto nella vita ma tre volte su quattro ho perso.
Per questo è importantissimo saper riconoscere il senso di una e dall’altra cosa. La vittoria è adrenalina purissima, però».
Domenica tornerà a Milano, dove è nato e cresciuto. Cosa proverà?
«Una bellissima emozione chiudere in Italia dove tutto è cominciato. La mia Milano è San Siro, con i figli degli altri fantini dell’epoca a sette, otto anni trascorrevamo nella zona del secondo traguardo tutti i sabati e tutte le domeniche. Giocavamo a pallone e poi imitavamo i nostri genitori, prendevamo i rami dalle siepi e immaginavamo che fossero frustini solo che invece di batterli sui cavalli ce li davamo sulle gambe… E poi il calcio. La nostra domenica era così: prime tre corse, poi uscivamo, scavalcavamo e entravamo a San Siro calcio, vedevamo la partita e via di nuovo per le ultime due corse all’ippodromo. Io ero e sono juventino, però, quante botte a scuola…».
Juventino è Massimiliano Allegri, che è pure appassionato di cavalli.
«E ci capisce di cavalli. Allena la Juve quindi è il mio allenatore... Mi ha chiamato perché un amico voleva che guidassi un cavallo nel Jockey ma avevo già l’accordo con la Dormello Olgiata, vestirò i colori di Ribot nell’ultima mia gara italiana, sarà ancora più bello».
Si ricorda la prima vittoria a San Siro?
«No ma mi ricordo bene la prima corsa. Giugno ’86, in sella a My Charlotte, in pista c’erano quattroDettori: mio zio, mio cugino, mio papà e io. Vinse mio papà, io ultimo».
Lo sa che Snaitech sta allestendo lì uno stadio del cavallo per riportarlo al centro della città?
«Sì e credo che piano piano ce la farà.
Perché quell’impianto è un gioiello, c’è la storia e c’è tutto quel verde che a Milano sta sparendo».
Dettori, che cos’è il cavallo?
«È amore. Un animale bellissimo con il quale si è perso il contatto. Ha il sesto senso, sa capire le persone, è affascinante, veloce. La perfezione».