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 2023  ottobre 12 Giovedì calendario

Carlo Emilio Gadda: “Il destino mi ha preso a calci”. “E la vita mi dà irritazione”

Chiamato ad auto-intervistarsi nel luglio 1950 per la rubrica Scrittori al microfono della Radio Italiana, presso la quale sarà assunto in ottobre come praticante del servizio letterario del Giornale Radio, Carlo Emilio Gadda rivelava la sua missione: “Nella mia vita di ‘umiliato e offeso’ la narrazione mi è apparsa, talvolta, lo strumento che mi avrebbe consentito di ristabilire la ‘mia’ verità, il ‘mio’ modo di vedere, cioè: lo strumento della rivendicazione contro gli oltraggi del destino e de’ suoi umani proietti: lo strumento, in assoluto, del riscatto e della vendetta”.
È una dichiarazione di guerra al mondo, che del destino è agente con tutta la sua carica patogena, sebbene nel 1919, tornato dalla prigionia e appreso della morte del fratello Enrico in volo sui cieli di Asiago, Gadda avesse deciso che non avrebbe più scritto per paura di “ricordare troppo”, sperando passasse presto la “tragica orribile vita”.
Invece Gadda scrisse, e del resto aveva iniziato a farlo in trincea, opponendo alla brutalità della guerra la resistenza del diario che diverrà il Giornale di guerra e di prigionia, laddove cominciano a palesarsi le sue cristallizzazioni future: il senso di un caso falcidiante, l’incompatibilità del “logico” col caos, “la deficienza del mondo” che sarà uno dei fulcri de La cognizione del dolore.
Mentre edifica le colonne della letteratura italiana del Novecento, Gadda – per affilare le armi e per sopravvivere – si dà alla scrittura di saggi, articoli, recensioni, tutti confluiti nella raccolta garzantiana I viaggi la morte (così, senza virgola, per volere di Gadda), che Adelphi pubblica oggi con la cura meticolosa di Mariarosa Bricchi sotto la direzione di Paola Italia, Giorgio Pinotti e Claudio Vela.
In questi 24 saggi scritti tra il 1927 e il 1957, Gadda convoca tutta la sintassi possibile, con tutte le sue occorrenze e combinazioni, e crea una lingua inaudita che mette al servizio della mobilitazione guerresca: “I doppioni li voglio, tutti, per mania di possesso e per cupidigia di ricchezze: e voglio anche i triploni, e i quadruploni… e tutti i sinonimi, usati nelle loro variegate accezioni e sfumature, d’uso corrente, o d’uso raro rarissimo”, scrive nel 1942.
In trent’anni di letteratura sparsa, totalizzante, vorace, Gadda precisa la sua ossessione di spiegare la realtà sbrogliando il gomitolo “di rapporti fisici e metafisici” che legano tutte le entità tra loro, “ognun di noi”, e gli eventi tragici e quelli farseschi, beninteso non da scrittore-Vate che “butta perle false ai polli” o gli regala “Caràibi”, ma come “combattente in duello” contro il “bamberottolo io”, “l’idolo io, questo palo”. Così altrove un chicco di riso va accostato ancorché separato dall’altro nella milanesissima ricetta del risotto, in cui è importante che l’ente singolo, “il chicco individuo”, non si scuocia degradando in “melma”.
Ricerca filosofica e linguistica procedono insieme, costituendo il movente del suo metodo creativo: un misto perfetto di genio e rigore con cui scandaglia gli anfratti sommersi della realtà, rivendicando in questa sua ricerca di una “gnosi propria” la “libertà làlica del primitivo, del bambino, del dissociato psichico”.
La lingua in Gadda non è solo abile contorsionismo (difendendosi dall’accusa di essere barocco, dirà che piuttosto “barocco è il mondo”), ma espediente etico, perché la vera natura di ciò che esiste è sempre ambigua, obliqua, abissale. Gadda non è scrittore da frequentare “la lingua dell’uso piccolo-borghese, puntuale, miseramente apodittica, stenta, scolorata, tetra, eguale, come piccoletto grembiule casalingo da rigovernare le stoviglie”; da qui la divagazione, la distrazione dal tema fissato, l’esplorazione delle sue possibili varianti, la costruzione di piani spaziali e temporali distesi, complessi, l’oltranza, fino all’ipertrofia.
In questi 24 saggi, alcuni dolorosamente tesi, altri francamente esilaranti, lo sguardo che Gadda getta sulla realtà – un laser da anatomopatologo – è quello disperante e ironico “di un romantico preso a calci dal destino”; è antidoto a un patogeno; è semi-choc anafilattico: “Io soffro di una forma biologica di irritazione verso l’ambiente, verso la vita”.
Così il Pasticciaccio, che uscirà nel 1957 per Garzanti (dopo essere uscito a puntate sulla rivista Letteratura) e la cui stesura è infiltrata dalla genesi di questi scritti, non è solo virtuosismo, pirotecnia verbale: è un’indagine spietata sull’umanità, un’etnografia di Roma e un libro d’amore: del commissario Ingravallo per la defunta Liliana, di Liliana per le figliocce-domestiche, e quindi un libro sulla morte.
I viaggi la morte è la partitura, il basso continuo, nella mente dello scrittore mentre compiva i suoi viaggi nelle tenebre rischiarate dalla sua prosa strabiliante, fino a scoprire “l’insospettata ferocia delle cose”, analogamente ai viaggi fisici (che per Baudelaire servivano a conoscere la propria geografia), i quali “sembravano via via poter appagare un desiderio inestinguibile”, e “hanno rivelato la gelida uniformità degli oceani e dei continenti”.