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 2023  ottobre 12 Giovedì calendario

Intervista a Jeffery Deaver

«I miei libri sono come le montagne russe», dice il re del thriller americano, Jeffery Deaver, 73 anni, in questi giorni in Italia (ieri era a Roma) per presentare Tempo di caccia (Rizzoli), il suo nuovo romanzo dedicato al detective Colter Shaw. L’autore de Il collezionista di ossa (1997), diventato un film con Denzel Washington, costruisce in questa nuova avventura una vera corsa contro il tempo, per salvare una donna ingegnere e sua figlia dall’ex marito poliziotto e da un gruppo di sicari. E nessuno è veramente come sembra.
Come descriverebbe il suo protagonista? Sembra una persona molto razionale, ma al contempo molto empatica.
«Sì esatto, e in realtà per lui devo ringraziare gli italiani. Perché il suo personaggio è ispirato ai film di Sergio Leone, all’uomo senza nome reso celebre da Clint Eastwood. È lo straniero che arriva in città, ha grande sangue freddo e usa la sua capacità per aiutare chi è in difficoltà. È una persona a caccia di ricompense, per ritrovare persone scomparse».
Il suo romanzo inizia come un romanzo sulla violenza contro le donne e poi diventa un inno all’ambiente. Ce ne vuole parlare?
«I miei libri hanno un andamento molto veloce, dall’inizio alla fine. Ma, oltre al conflitto tra i cattivi e il nostro eroe, credo che un libro debba restare impresso nella mente. Qui volevo porre l’accento sulle responsabilità delle corporation in America, nei confronti delle piccole città».
Il romanzo infatti si svolge in una piccola città immaginaria, è così?
«Sì esatto, è chiamata Ferrington, che come suggerisce il nome è stata una vecchia città per la lavorazione del ferro. Poi le compagnie se ne sono andate, lasciando dietro di sé tanta disoccupazione e molte scorie chimiche. Io stesso sono nato in un piccolo sobborgo vicino a Chicago (Glen Ellyn, ndr)».
Quanto è importante preservare l’ambiente?
«Bisogna rimediare ai danni degli altri. La sedia vuota era un mio romanzo di qualche anno fa, sui pericoli di pesticidi e insetticidi usati in passato. Quando ero più giovane la città era percorsa da autocarri che spargevano DDT contro le zanzare e noi ragazzi li seguivamo, senza sapere della nocività».
Lei ha creato molti personaggi seriali, come Lincoln Rhyme and Kathryn Dance. Quale tra questi ha amato di più?
«Io sono così fortunato, a vivere dei miei libri, e ho milioni di lettori nel mondo. Alcuni amano di più Lincoln Rhyme, che è una specie di Sherlock Holmes, ed altri amano Colter Shaw che è un eroe a tutto tondo. A me non fa differenza scrivere dell’uno o dell’altro».
Nei suoi romanzi non ci sono mai personaggi completamente buoni o del tutto cattivi: vuole copiare la realtà?
«Sì, è così. Più creiamo personaggi di finzione verosimili, e più i nostri libri possono essere coinvolgenti. I miei buoni generalmente prevalgono, ma hanno dei difetti, dei difetti morali. E allo stesso tempo, i villains, i cattivi, non sono mai puramente malvagi».
C’è modo di limitare la quantità di fucili d’assalto in America?
«In una parola: no (ride). Io stesso possiedo armi, le ho usate per uccidere serpenti velenosi, servono per autodifesa. Ma purtroppo le sparatorie nelle scuole e i massacri sono parte dell’America. Non credo che le cose cambieranno presto».
Lei è un maestro del thriller. Quali sono le sue regole, quando scrive?
«È semplice da dirsi, ma difficile da farsi. Creare personaggi molto realistici, e metterli davanti a ostacoli sempre crescenti. Fino a una sorpresa finale che risolva la storia in una maniera soddisfacente per i lettori. Non necessariamente con un lieto fine».
È in arrivo una nuova serie tratta da un suo libro, The Never Game, vero?
«Sì, ma hanno cambiato il titolo: si chiamerà Tracker, che sta per qualcuno a caccia di tracce. Sto lavorando anche con Amazon Studios a un progetto, ma ora a Hollywood tutto è sospeso, a causa dello sciopero degli attori. Per ora mi devo concentrare sui miei libri».
Quali sono gli autori che l’hanno ispirata di più?
«Sono talmente tanti. Tra i più grandi, Agatha Christie, Conan Doyle, Ian Fleming, Georges Simenon. Ma tra gli italiani, ho letto anche Camilleri. E ho visto la serie tv dedicata al commissario Montalbano».
Com’è stato scrivere una storia di James Bond?, nel 2011?
«Ho sempre amato le storie di 007 e dopo avere scritto Il giardino delle belve (nel 2004) mi sono reso conto che era stata una delle letture che più mi aveva influenzato. Quando gli eredi mi hanno chiamato per chiedermi di scrivere una nuova avventura di James Bond, ho accettato con entusiasmo. Ma in Carta Bianca ho fatto qualcosa di diverso. Bond non era il supereroe che ritroviamo nei film ispirati ai libri di Fleming: ho cercato di andare all’origine del personaggio».
Cosa pensa dell’Italia?
«Vengo qui ogni anno. Ho studiato latino, ho letto Virgilio in lingua originale. E poi naturalmente amo il cibo italiano, ho mangiato dell’ottimo pesto... È un paese di lettori, la gente ama i libri».
Lo crede davvero?
«Qui vendo molti libri. Dopo l’America, è il secondo mercato per me. E anzi, proporzionalmente alla popolazione, ne vendo di più».
Cosa pensa della nuova guerra in Israele?
«È una tragedia indicibile. Non ho l’autorità per parlare di politica, ma sembra un trend globale: un nuovo ordine mondiale fatto di disordini, di violenza. Una sfida continua contro lo status quo, come è avvenuto in Ucraina. Spero che le voci di pace prevalgano».