Corriere della Sera, 11 ottobre 2023
Bansky e il diritto all’invisibilità
Dunque, addio Banksy? La notizia diffusa dal Daily Mail ha fatto scalpore. Nelle prossime settimane, Banksy dovrebbe presentarsi davanti al giudice dell’Alta Corte di Londra, per difendersi da un’accusa per diffamazione nell’utilizzo del copyright. Un’occasione straordinaria per far cadere la maschera dietro cui si nasconde il più celebre tra gli street artist contemporanei, decretando la fine di illazioni, di ipotesi, di indizi.
Ma è davvero così importante sapere che, dietro l’identità di Banksy, si celerebbe Robin Gunningham? Perché sfruttare una vicenda giudiziaria per scoprire il volto dell’Arsenio Lupin dell’arte, autore di murales simili a favole perturbanti, capaci di coniugare sensibilità politica, echi pop e rimandi fumettistici?
Siamo dinanzi a un’intollerabile violazione della privacy, non troppo diversa da quella cui, da anni, è sottoposta Elena Ferrante: la scrittrice de L’amica geniale è stata pedinata a lungo, finanche nei suoi movimenti bancari. Atti inaccettabili. Tentare di bucare il muro della riservatezza. Sfondare la parete del silenzio. Sfidare chi si è affidato a quello che i greci chiamavano lathe biosas (vivi nascosto). Non consentire che ci sia qualcuno disposto a comportarsi come il Bartleby di Melville: «Io preferirei di no». Banksy, tanti altri street artist (come Blu) ed Elena Ferrante suggeriscono un modo quasi scandaloso per abitare il presente. Con sensibilità diverse, hanno capito che, nella civiltà dello spettacolo, meno si appare più si esiste. Nel tempo dell’«egocalisse», meglio rendersi invisibili. Mantenere un’ostinata clandestinità. Segnare una netta distanza tra arte e vita. Parlare solo attraverso le proprie opere. È un preciso programma poetico, etico e politico: la scelta dell’anonimato esige rispetto. Forse, è proprio l’anonimato la più grande creazione di Banksy e di Elena Ferrante. In un’età in cui tutto è in vetrina, perché rinunciare alla bellezza e al mistero del «senza nome»?