Corriere della Sera, 11 ottobre 2023
Autobiografia di un lettore
Un modo efficace per comprendere lo spirito di un’epoca è scorrere le autobiografie pubblicate nei suoi anni. Dal racconto di sé stessi e quindi dagli episodi che si sceglie di mettere in salvo dallo scorrere del tempo emerge la trama che i contemporanei considerano importante, i confini che la società del momento traccia per individuare ciò che conta. A sfogliare le tante biografie di oggi, curricula epici di eroi effimeri, le imprese da consegnare ai posteri – che sia il piano editoriale di un influencer o lo slogan fortunato di uno startupper arrivato in Borsa – soddisfano i canoni estetici dell’autoritratto a una dimensione, del selfie digitale e reale, ma raramente si spingono nell’audacia richiesta a una narrazione che, al di là dei legittimi giudizi soggettivi, riesca a inserirsi nel filone di un «buon libro»: scrivere l’epilogo di un mito odierno.
L’essenziale (Solferino) di Giovanni Floris ha il merito di ricostruire il percorso personale e professionale del giornalista e conduttore della trasmissione DiMartedì, offrendo allo stesso tempo sollievo per la liberazione da almeno due favole belle dei nostri tempi e in qualche modo complementari: l’innocenza delle parole e il talento isolato dell’io che, più che un pronome, scriveva Eugenio Scalfari è «il pennacchio di un elmo», «una superstizione» che queste pagine smascherano con ironia e sincera perplessità.
La decostruzione di queste due illusioni inizia con l’artificio letterario che ricorda quello adottato da Friedrich Nietzsche nel suo La gaia scienza, per smentire a sua volta dei miraggi comuni. Un demone appare in sogno per porre una sfida inquietante: rileggere tutti i volumi della propria libreria per Floris, rivivere ogni momento dell’esistenza trascorsa per il filosofo tedesco. In entrambi i casi, il percorso che si presenta ha due direzioni destinate a convergere: rivedere il passato per essere presenti al futuro. La creatura spaventosa che l’autore sorprende nel divorare i suoi libri lo spinge a chiedersi quali di questi mettere in salvo.
Nell’intraprendere questo viaggio a ritroso, Floris ci annuncia che sul sedile del passeggero non c’è posto per il culto della prima persona: le esperienze, le scelte professionali e personali che ha compiuto sono state sempre accompagnate da un coro di autori e da compagni di vita e di letture con i quali ha condiviso scoperte e riflessioni. «Non è la mia memoria personale, ma un substrato collettivo cui attingere».
Conosciamo i momenti privati e gli accadimenti storici che ha vissuto – come l’attentato alle Torri Gemelle quando era inviato e poi corrispondente negli Usa per il Giornale Radio – attraverso i titoli di romanzi, saggi e poesie, gli scambi di opinioni con gli amici, le citazioni e le annotazioni scritte rigorosamente a penna («se un libro cambia me è giusto che io cambi lui») e che a distanza di tempo rievocano «l’essenziale» di quel libro, «la (a volte piccola) variazione di direzione che ha dato alla tua vita».
I primi testi a essere salvati dalla furia del demone sono allora quelli che nel suo percorso hanno impresso la svolta più profonda fino a diventare il solco su cui si incamminano tutti gli altri cambiamenti: i Vangeli che indicano «tutto quello che serve per vivere da essere umano», e L’arte della guerra di Sun Tzu che «ti insegna a sopravvivere tra gli esseri umani».
Ma per capire quale essere umano diventare e quali principi abbracciare nel lavoro da giornalista che sogna fin da giovane, Floris ha inseguito autori diversi tra loro, accogliendone le provocazioni, soppesando i dubbi e i turbamenti vissuti dai personaggi come fossero amici o parenti ai quali chiedere un consiglio, strappare un sorriso, e soprattutto un suggerimento per «risolvere il dilemma tra logica ed empatia», ricordandosi che la prima «non è (per fortuna) l’unico modo di vivere».
Il giornalista allora ci racconta la sua vita a partire dall’«essenziale» che i romanzieri, i poeti e qualche saggista e regista, gli hanno suggerito per ogni fase che ha attraversato. Da adolescente frequenta Arthur Rimbaud, Charles Baudelaire, Joris-Karl Huysmans, Paul Verlaine, Oscar Wilde. Il loro essenziale è aver dato a quella stagione di gioventù e ribellione, il diritto scritto in versi o in prosa, di vivere «solo nel possibile». Poi, arriva il momento delle scelte da adulto, dell’università, della disoccupazione e dei primi incarichi. L’essenziale ora è tenere insieme possibile e reale: lo recupera dalle indecisioni del matematico dell’Uomo senza qualità, dai dilemmi di Vitangelo Moscarda di Uno, nessuno e centomila, nelle ossessioni di Zeno Cosini ne La coscienza di Zeno. E nel frattempo, questi essenziali si sedimentano nelle parole, le privano di quella presunta innocenza o neutralità che la comunicazione di oggi tende ad attribuire loro, considerandole dei semplici media, degli strumenti manipolabili a piacimento da strategie di marketing.
Le rotte intraprese dalle nostre parole, ci mostra l’autore stringendo un’empatia immediata con il lettore, dipendono dagli «essenziali» che troveranno nell’interlocutore, modellati da tante letture o da nessuna, e quindi originati altrove, ma non per questo meno meritevoli di ascolto.
Prendiamo la parola «partire». Per Floris che ha letto Moby-Dick, il suo significato sarà legato per sempre alla scena in cui il capitano Peleg vuole saggiare la capacità del ragazzo di far parte della ciurma, chiedendogli le impressioni che gli suscita la vista del mare. A chi è pronto per viaggiare, non può sembrare solo acqua. Per questo, per Floris, la «partenza» non è mai sinonimo di «vedere il mondo». Si può viaggiare, come lascia intendere il romanzo di Hermann Melville, senza averlo mai visto veramente.
Le parole sono intessute di relazioni, ci ricorda questo libro, che sembra ispirarsi all’etimo greco di leghein, «parlare», ma anche «legare», tenere insieme i vissuti e le occasioni in cui quell’insieme di lettere sono venute a trovarci. Le nostre storie come le nostre idee sono contaminate dai libri che leggiamo e dagli autori che abbiamo incontrato. Su questi si può costruire un racconto di sé che tende insieme all’oggettività e all’immedesimazione. A un’autobiografia che, come quella di Floris, mette al riparo dalle pretese brusche dell’ego ed espone al potere (e)«legante» delle parole.