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 2023  ottobre 11 Mercoledì calendario

Intervista a Tim Burton


torino C’è chi dirige dei film e chi crea dei mondi. Quello di Tim Burton è fatto di licantropi e teschi che sorridono, di cani con le corna, bambole sfregiate e ragazzi con delle lame al posto delle mani. Un mondo di reietti, con i quali, giura il regista, ancora oggi si identifica: «È incredibile come il tempo passi ma alcune cose rimangano le stesse: oggi sono felice, me la cavicchio con la vita, eppure la sensazione di essere ancora quell’adolescente incompreso non mi abbandona».
Incredibile lo è davvero, perché ora quell’adolescente è un regista di 65 anni con i capelli scompigliati e i modi gentili, che ha segnato la cultura pop con storie e personaggi che hanno ribaltato prospettive e punti di vista (inoltre è un outsider fidanzato con la più bella tra le belle, Monica Bellucci. Ma l’argomento è vietato ndr). Il suo lavoro, poi, è al centro di una mostra itinerante che da oggi fino ad aprile si fonde con la Mole Antonelliana, a Torino.
Felice?
«È tutto incredibile qui, come lo è anche essere raccontati in una mostra».
Come può sentirsi ancora incompreso in un mondo in cui viene venerato?
«So che può sembrare strano ma non lo è. Questa sensazione fa parte di me, non è una posa. Anche se erano sentimenti che provavo da giovane, mi hanno sempre accompagnato, nonostante il successo, i traguardi».
Da Edward mani di forbice a Mercoledì, come sono cambiati i ragazzi?
«Sono molto simili, a modo loro. Mercoledì è un personaggio che mi ha parlato, a cui mi sento affine. Stiamo girando la seconda stagione. Il mio sentirmi vicino a questi soggetti credo dipenda dal fatto che io quei sentimenti è come se li avessi vissuti ieri. Ricordo la pena e il dolore che si prova quando sei a scuola e ti senti solo. Anche se cambi, restano in te, nel tuo Dna».
Eppure oggi da emarginato è tra i pochi registi ad aver segnato la cultura pop.
«Non me lo sarei mai aspettato. Figuriamoci. Quando ti senti come mi sentivo io era già tanto aspettarsi di arrivare al giorno dopo».
E se non fosse diventato un regista?
«Probabilmente sarei diventato un serial killer».
La chiamano tutti «genio». Che effetto le fa?
«Non tutti dai, ci sono un sacco di persone che mi chiamano in un altro modo».

Eppure stanno anche girando una serie su di lei.
«È vero ma cerco di non curarmene. A casa copro anche gli specchi talmente non mi interessa guardarmi, quindi, anche qui, lascio fare a loro».
Le dispiace non aver mai vinto un Oscar?
«No, davvero. Non sono materialista, va bene così».
I soggetti dei suoi disegni della mostra sono pipistrelli, scheletri, persone trafitte da punti di sutura. Eppure dalla mostruosità emerge una certa allegria, di fondo.
«Perché le cose che mi hanno spaventato, e da sempre, sono altre: mi spaventava moltissimo alzarmi tutti i giorni e andare a scuola, oppure mi terrificavano alcune persone della mia famiglia: mi rendevano nervoso».
Cosa la ispira invece?
«L’ispirazione arriva dalle cose più semplici: siamo troppo occupati a fare cose, nel mondo moderno, ma le idee migliori arrivano quando pensi ad altro. E la fantasia mi pare sempre più reale della realtà stessa».
Una sezione della mostra è sui progetti mai realizzati.
«Ce ne sono moltissimi, alcuni non diventeranno mai un film, per altri ci vorranno anni: per Nightmare before Christmas dieci. Tutto mi stimola, basta osservare. E io poi disegno, ovunque. Lo fanno tutti i bambini, solo che io non ho più smesso».
C’è qualche film che l’ha influenzata particolarmente?
«Sono cresciuto amando gli horror, tipo quelli di Mario Bava. Apprezzo Fellini. I film mi hanno aiutato ad affrontare la vita, psicologicamente: mi hanno spiegato come superare certi momenti».
Un film che non rifarebbe?
«Non rimpiango nulla. Le cose non straordinarie che ho fatto erano comunque parte di un momento, bene così. Mi sento vicino a tutti i miei film: ognuno era parte di me».