Corriere della Sera, 10 ottobre 2023
L’autocensura di Pio XII
Solo una volta Pio XII si riferì alla Shoah in pubblico alludendo al concetto di «sterminio», nel 1943, quando parlò di «costrizioni sterminatrici». Tuttavia, né prima né dopo egli avrebbe più pronunciato la parola «sterminio» e così fecero anche i suoi successori nei loro discorsi pubblici. Sarà Giovanni Paolo II, nel 1979 ad Auschwitz, ad usare nuovamente quella parola per riferirsi alla Shoah.
Capire il «silenzio di Pio XII» in realtà significa comprendere le ragioni di così lunghi silenzi, che non possono essere ricondotti a una causa soltanto. D’altra parte, nella sua prima enciclica, Summi Pontificatus, egli aveva proposto l’immagine di una Chiesa come «guida e consiglio» di tutte le genti.
Ma Papa Pacelli non poteva immaginare a quale prova lo avrebbe chiamato la storia, una prova che egli affrontò con quei mezzi che la sua formazione, nei lunghi anni trascorsi tra i ranghi della diplomazia vaticana, gli aveva fornito: il silenzio e il negoziato.
Così Pio XII fece anche per i polacchi, cattolici. Ciò nonostante, in alcuni momenti, egli alzò la voce in pubblico e chiaramente contro le persecuzioni subite dal suo gregge. Lo stesso non accadde per gli ebrei, che secoli di antigiudaismo religioso avevano reso «quasi estranei» all’interesse della Chiesa. Sì, essi avrebbero potuto beneficiare di assistenza e carità dal Vaticano: ma non come i cattolici; e sicuramente senza che la Santa Sede parlasse per loro. D’altra parte, non mancavano nella Curia Romana uomini di idee antisemite, come monsignor Angelo Dell’Acqua, paradossalmente ritenuto l’esperto nella questione ebraica.
Una visione miope, fortemente limitata, figlia di un’epoca. Ciò nonostante Pio XII avvertì i limiti del silenzio come scelta diplomatica, mentre cresceva la percezione dello «sterminio» in Vaticano. Nel settembre 1942, mentre Dell’Acqua minimizzava le voci sulla Shoah, monsignor Giovanni Battista Montini invece usava per la prima volta la frase «sterminio che si sta facendo degli ebrei» in un documento prodotto all’interno della Segreteria di Stato.
Ma era ancora prevalente il timore che parlando «il governo tedesco, sentendosi colpito» avrebbe aggravato «la persecuzione contro il cattolicesimo in Polonia».
Tuttavia le ripetute voci sulla barbarie nazista, confermate dal gesuita tedesco Lothar König, spinsero Pio XII a prendere una posizione. Nel Radiomessaggio natalizio del 1942 Papa Pacelli aggiunse volontariamente la frase sulle «centinaia di migliaia di persone» che «per ragione di nazionalità o di stirpe, sono destinate alla morte o ad un progressivo deperimento». Una frase timida, sebbene con la parola «stirpe» il Papa alludesse intenzionalmente al popolo ebraico, come egli stesso spiegava in una lettera a monsignor Konrad von Preysing, vescovo di Berlino.
Ma nel discorso al Sacro Collegio del 2 giugno 1943, Pio XII decise di compiere un altro passo. Egli volle aggiungere un’allusione più esplicita agli ebrei, coloro che «per ragione della loro nazionalità o della loro stirpe» sono «destinati talora, anche senza propria colpa, a costrizioni sterminatrici». Questa volta si usava l’aggettivo «sterminatrice» che evocava la tragedia in corso. Inoltre, su disposizione diretta di Papa Pacelli, «L’Osservatore Romano» pubblicava quelle parole precedute da una rubrica eloquente: «Sofferenze di popoli per ragione di nazionalità o di stirpe». Quelle frasi avrebbero rappresentato il punto massimo della pubblica protesta papale sulla Shoah.
Era forse quello l’inizio di una svolta nella posizione di Pio XII? C’è da dubitarne. Il Papa avvertiva fortemente le pressioni per il silenzio, provenienti soprattutto da parte dei cattolici tedeschi e in favore dei tedeschi. Ma soprattutto dopo l’occupazione di Roma la Santa Sede apparve sempre più reticente, in particolare davanti alla tragica giornata del 16 ottobre 1943, con la razzia delle SS nel ghetto della capitale. Una lettera del 14 novembre 1943 forse aiuta a far luce su tutto l’atteggiamento del Vaticano. Il cardinale Ildefonso Schuster, arcivescovo di Milano chiedeva di autorizzare una protesta dell’episcopato lombardo contro la persecuzione antiebraica in Italia settentrionale. Il 16 novembre, un mese dopo il rastrellamento di Roma, monsignor Dell’Acqua scriveva: «A me sembra che non convenga che la Santa Sede si interessi directe della questione: non lo fece (almeno mi pare) per la Germania, per la Francia, per l’Olanda, per la Slovacchia etc., non vedo perché debba ora scostarsi da tale linea di condotta». Dell’Acqua suggeriva: «Sembra piuttosto consigliabile un’azione confidenziale, tanto più che principi generali sono stati più volte chiaramente esposti dalla Santa Sede. L’esperienza ha dimostrato che pubbliche dichiarazioni non fanno che maggiormente irritare le autorità e danneggiare quindi coloro cui si desidera e si vuole fare del bene».
In quelle frasi si riassumevano tutte le paure, i preconcetti e i limiti dell’azione svolta dalla Santa Sede nella questione ebraica. A torto o a ragione il silenzio era considerato nei Sacri Palazzi una condizione di necessità, fino all’autocensura. Il 23 ottobre 1943 veniva segnalato che alcuni militari tedeschi diffondevano la voce calunniosa che il Papa avrebbe approvato la deportazione: una menzogna. Stupisce invece la reazione del Pontefice. Infatti fu preparata una nota di smentita, ma le parole di protesta vennero cancellate dal testo: verranno riferite «se mai, a voce». Nemmeno la difesa dalle calunnie riuscì a smuovere il silenzio.
Solo osservando tutti questi silenzi e quei timidi tentativi di parola si inizia comprendere il silenzio complessivo di Pio XII sulla questione ebraica. E si comprende poi anche il disagio provato da Papa Pacelli dopo la guerra, con la crescente consapevolezza interiore di aver provato a fare più di quanto molti collaboratori consigliavano, ma anche di non essere riuscito a fare ciò che l’urgenza dei tempi chiedeva. Così nel 1946 il cardinale Raffaello Rossi poteva dire: «Forse se avessimo condannato a tempo il nazismo non ci troveremmo oggi nella situazione in cui siamo», riferendosi al comunismo.
Solo nel 1953, parlando ai giuristi, il Papa sarebbe finalmente riuscito a condannare quanto era accaduto: «In queste ultime decine di anni, si è assistito a massacri per odio di razza; si sono manifestati davanti al mondo intero gli orrori e le crudeltà dei campi di concentramento». Ma ancora una volta egli non sarebbe riuscito a pronunciare una parola densa di significati: sterminio.
Segno eloquente della ferita aperta lasciata dalla questione dei silenzi in Pio XII: una inquietudine che purtroppo, doveva attendere il Concilio Vaticano II per trovare ascolto.