Corriere della Sera, 10 ottobre 2023
Intervista a Guido Borghi, figlio del fondatore di Ignis
Guido Borghi, le hanno mai dato del Cumènda?
«Sinceramente no...».
Ma le sarebbe piaciuto mutuare lo storico soprannome di suo padre Giovanni?
«Mio papà era unico... Sono figlio di un grande uomo».
Lui che cosa ne pensava?
«All’inizio gli piaceva. Poi, dopo aver ricevuto la laurea honoris causa, ci teneva a essere chiamato ingegnere».
Papà parlava mai dei suoi natali umili?
«Ricordava che a scuola era arrivato solo fino alla sesta elementare perché a 10 anni aveva iniziato ad aiutare la famiglia. Nell’impresina di Milano, all’Isola, i lavori erano interessanti: impianti elettrici, impianti idraulici... Le braccia contavano tanto e avere quelle di famiglia era un valore aggiunto».
Qual è stato l’elemento decisivo nella creazione dell’impero Ignis?
«La sua più grande intuizione: sostituire le stufe e i fornelli elettrici con apparecchi a gas. Alla Fiera Europea di Milano prese uno spazio nel quale dimostrava che in quel modo dimezzava il tempo di ebollizione dell’acqua. Fu l’anno in cui fece l’accordo con la Pibigas, conquistando l’Italia. Era uno straordinario uomo di marketing e lo sport fu il passo successivo: iniziò nel 1954 con il Giro d’Italia, aiutando una squadra spagnola».
Le sponsorizzazioni lanciarono il marchio Ignis.
«La prima fu nel pugilato, in ricordo di un fratello appassionato della boxe morto in un incidente. Il salto di qualità avvenne con il ciclismo, anche se continuammo con il pugilato: tranne Nino Benvenuti, i grandi campioni sono passati da noi. Benvenuti non potevamo prenderlo perché avevamo Sandro Mazzinghi, suo rivale».
Quanto l’Italia del boom deve a Giovanni Borghi e viceversa?
«Papà fu un protagonista di quell’Italia: non ha debiti. Aveva un’impressionante rapidità di mente, era schietto e diretto. Intervistato dalla Rai – la Rai dell’epoca, sottolineo —, ammise che le “bustarelle” erano purtroppo necessarie».
Come gestiva le relazioni con lei e con sua sorella Midia?
«Ci voleva un bene infinito, ma aveva un debole, come tanti padri, per la figlia».
Andava nei cinema a suonare il piano, accompagnando i film muti.
«Sua mamma suonava il piano: insegnò al figlio la tecnica. Papà aveva pure orecchio. Io imparavo una canzone e gli dicevo: “Aiutami a cantarla”. In un attimo trovava gli accordi. Poi c’era la tradizione di famiglia grazie a mio cugino Fedele Confalonieri, figlio di Luigia Borghi, diplomato al conservatorio».
Com’era il rapporto con Fedele?
«Di adorazione. C’era un pianista spagnolo, Josè Iturbi, che spopolava nei film di Hollywood. Ma mio padre diceva al nipote: “Tu sei più bravo!”. E gli chiedeva di suonare».
Senza il bombardamento dell’officina magari sarebbe rimasto a Milano. Ci sarebbe stata la Ignis, in quel caso?
«La Ignis ci sarebbe stata senz’altro, e quasi sicuramente sempre nella zona di Varese perché il nonno aveva una casa a Comerio».
L’eccellente legame con i fratelli si incagliò.
«L’impresa era legata ai tre fratelli Borghi e inizialmente anche allo zio Ernani, papà di Fedele. Il leader era mio padre, ma lasciò la “Guido Borghi e figli” perché i fratelli non approvavano gli investimenti. Puntava a costruire un nuovo stabilimento, ma il nonno disse: “Non firmo altre cambiali”. Così papà andò in banca, ottenne i soldi e sparì. Dopo un po’ il nonno gli scrisse chiedendogli di tornare. Malgrado fosse pronto a fare da solo, rientrò in azienda».
È vero che acquistò 200 frigo per capire pregi e difetti dei concorrenti?
«Negli Usa visitammo varie ditte. Comperò frigoriferi e li importò. Mentre gli americani inserivano i pannelli di poliuretano, lui fece sì che l’espansione della sostanza avvenisse dentro il frigo, creando un migliore isolamento. Infine la sua idea del compressore fece la differenza».
Aveva una visione paternalistica, però era amato dai dipendenti.
«Li conosceva e li salutava tutti, era generoso. Faceva diventare i lavoratori partner delle sue aziende, così i sindacati rimanevano esclusi. Gli industriali gli crearono mille problemi».
Lotta Continua creò il ritornello «Padron Borghi, porco fetente»...
«La cosa non lo ferì. Pensate: non aveva guardie del corpo, girava da solo».
Lo vedevano quasi come un fascista.
«Invece è stato un grande socialista. Ha venduto Pietro Anastasi alla Juventus e non all’Inter non tanto per i soldi ma perché Agnelli produceva compressori con l’Aspera: il cartellino da 500 milioni di lire fu in gran parte saldato con un “cambio merce”. Anastasi fu un ambasciatore di lavoro e di continuità aziendale».
Gaber nella canzone «Lui» lo cita tra gli Apostoli, assieme a Sant’Agnelli, a San Pirelli, a San Marzotto dei filati...
«Con una precisazione: papà ha sempre mandato avanti tutto in prima persona».
Purtroppo nel 1968 cominciarono i guai di salute.
«È morto troppo presto, a 65 anni. L’infarto lo ebbe nel 1968. Seguirono 5 anni terribili, nei quali sarebbe stato colpito dal cancro. Convocava i dirigenti nella casa al mare, ma essere in azienda è un’altra cosa».
Alla fine si convinse a vendere alla Philips.
«La sua idea era: do il 50% a condizione che mi mettiate nella vostra rete e mi portiate lavoro. Andò al contrario: il 70% delle vendite avveniva grazie alla Ignis. Gli olandesi furono furbi: i patti prevedevano che le aziende industriali non perdessero. Hanno approfittato di certe situazioni, incluso il fatto che mio padre era debilitato: dimostravano che quel ramo andava male; avendo noi il 70%, avremmo dovuto ripianare. Quindi papà mollò: pretese solo che io fossi nel cda. Dopo 3 mesi, guarda caso, l’azienda era già in utile. Che cosa fecero i suoi dirigenti quando videro arrivare uno più forte? Immaginate... per dirla tutta, navigò tra solenni tradimenti».
È vero che amava giocare al casinò?
«Sì. Gli piaceva pure il contorno umano: non sarebbe mai andato da solo, voleva con sé amici o familiari. Io non giocavo, ma non mancavo alle cene che si tenevano prima».
Dello sport, dicevamo, è stato un mecenate.
«Stravedeva, nel ciclismo, per Antonio Maspes. Poi adorava Miguel Poblet e volle bene a Baldini, anche se Ercole era in calo. Ma una volta gli promise: “Da oggi vinco delle tappe”. Lo fece».
Come vedeva la Ignis basket e il Varese calcio?
«La Ignis è stata un fiore all’occhiello, il Varese fu un impegno perché la città gli lasciò un “boccone avvelenato”. Però in tre anni lo portò dalla C alla A».
Com’era il rapporto con Agnelli?
«L’avvocato veniva spesso a Cap Ferrat. Erano gli anni in cui ci si rapportava con grandi eccellenze: oggi certe cose le vedi solo in tv, noi le sperimentavamo dal vivo».
Quante volte ha sentito l’altra frase famosa, «S’al custa?» («Quanto costa?»)?
«La disse una sola volta in un ristorante: si era trovato così bene che voleva comperarlo, per clienti e amici».
Giovanni Borghi sarebbe un attore dei tempi moderni?
«Oggi un imprenditore deve saper gestire pure la finanza. Papà, invece, era più uomo di marketing e di prodotto. Però l’innovazione non lo spaventerebbe: fu uno dei primi ad avere l’intuizione delle macchinette per distribuire bevande. Creò la Dai, azienda alla quale io aggiunsi la produzione dei frigo da incasso».
Però lei è poi passato alla pubblicità.
«Io e mio figlio Giorgio portiamo avanti la Movie Magic: l’ho fondata nel 1990. I grandi attori di Hollywood non facevano pubblicità, oggi posso lavorare con tutti. Sono partite le riprese del film sulla vita di Ennio Doris: la sua figura mi ricorda papà».