La Stampa, 10 ottobre 2023
Intervista a Steve McCurry
Steve McCurry è un testimone. Nel corso della sua cinquantennale carriera come fotografo ha esplorato gli ambiti più disparati e le zone più remote del pianeta Terra. Ha realizzato reportage dalle zone di guerra, ha seguito spedizioni umanitarie e ha girato il mondo alla ricerca di qualcosa che con il tempo si è trasformata nel suo Sacro Graal, il suo obiettivo ultimo: l’essenza dell’umanità, intesa come genere umano. La sua ricerca lo ha portato a scavare tra le immagini di un mondo non sempre piacevole, ma sempre meritevole di essere raccontato. Ha cercato la bellezza negli slum indiani, la spiritualità sulle creste himalayane, la resilienza negli occhi verdi delle ragazze afghane. La devozione – da qui il titolo dell’ultimo volume pubblicato da Mondadori, Devotion – negli atti di misericordia e amore perpetrati ogni giorno in tutti gli angoli del mondo. È un viaggiatore che non si è mai stancato, un narratore affidabile che ha fatto del reportage il suo mezzo per informare di ciò che ha sempre ritenuto importante. Il suo impulso al racconto gli dà, ancora oggi, l’energia per continuare a cercare, e l’ottimismo per non smettere mai di credere che arriverà a completare la sua missione.
È stato in Ucraina di recente?
«Sì, sono tornato da poco».
Ha portato a casa qualche convinzione?
«No, solo un paio di domande: “perché?” e ancora “perché?”. Il primo riguarda lo sforzo disumano, l’incredibile dispendio di energie e risorse impiegato nel tentativo di assoggettare un territorio e distruggerlo. È qualcosa che per me non ha senso. Ci sono cause, non dico più alte, più nobili, ma sicuramente più umane da perseguire con la stessa convinzione che stanno mettendo i russi in quest’opera di distruzione».
E il secondo?
«Per quanto riguarda gli ucraini, non c’è dubbio riguardo al loro obiettivo: vogliono preservare la loro autonomia. Ma i russi? Davvero, faccio fatica a comprenderli. Quindi sono tornato più confuso di prima».
È un segnale di regressione umana?
«Non necessariamente. L’umanità, presa nella sua totalità, sta lentamente facendo passi avanti. Questo non significa che tutti gli uomini, tutti i popoli e tutti i governi stiano andando nella giusta direzione».
Quindi lei è un ottimista?
«Ragionevolmente, sì. Penso alle conquiste fatte nell’ambito della lotta al razzismo, ai diritti delle minoranze, ai diritti degli animali, agli sforzi per combattere il riscaldamento globale».
Se ne stanno facendo?
«Indubbiamente. Il fatto che non si arrivi a risultati immediati o che ci sia ancora scetticismo non significa che chi sta studiando il problema non stia giungendo a delle conclusioni. Questi sono importanti segnali di reazione da parte dell’umanità».
Sento che c’è un “ma”.
«C’è quasi sempre».
Qual è il suo?
«Mi chiedo se faremo in tempo. Non ho modo di sapere quanto ci resta prima del collasso, come credo nessuno se non attraverso proiezioni teoriche, e quindi mi domando se riusciremo a battere la catastrofe sul tempo. Se riusciremo ad arrivare prima dell’estinzione dell’ultimo rinoceronte, prima della fine dell’acqua, della terra coltivabile».
È un grosso “ma”.
«Sono quelli che valgono la pena. E dimostra quanto qualsiasi guerra non possa che essere uno spreco di energie vitali che potrebbero essere dedicate allo sforzo comune».
Questo sforzo è una forma di devozione?
«Lo è, probabilmente la più grande. Fa parte di quel tipo di sensibilità intrinseca che porta certi uomini e certe donne a usare tutte le energie che hanno a disposizione per una causa esterna a sé».
La definizione di umanità...
«Esatto. L’ho vista in persone come Gino Strada: un medico che avrebbe potuto vivere nella tranquillità della sua casa a Milano, fare una vita agita, una carriera invidiabile, ma che ha scelto di partire per alcuni degli angoli più pericolosi e remoti del pianeta per dedicarsi agli altri. È devozione».
Ha a che fare con la religione?
«Non penso. Penso che abbia a che fare con una specie di spiritualità, che però si concentra sugli esseri umani e non sull’idea di divino. A volte, in questi casi, la religione serve come supporto morale: è confortevole l’idea di stare agendo per un bene talmente superiore da essere un mistero. Altre volte è solo un impiccio».
In che senso?
«Quando penso alla definizione di “devozione”, penso che sia qualcosa che abbia la necessità di un certo grado di azione. Non può essere solo teorica, deve essere messa in pratica, portata sul campo, provata, e condurre a dei risultati».
Lei è religioso?
«No, non direi. Mi sono avvicinato al buddismo, ma non ho mai abbracciato alcuna convinzione religiosa».
È scettico?
«No, neanche questo. Credo nella chiamata, alla quale per qualcuno è impossibile resistere. Ma è una chiamata, una vocazione, anche quella di dottori e dottoresse, di infermieri e infermiere, che come Gino, come Albert Schweitzer, scelgono di partire per aiutare altri in difficoltà».
Ha mai visto questo sentimento nel piccolo, nel privato?
«Indubbiamente. Non occorre andare ai confini del mondo per trovarlo, è parte della natura umana a qualsiasi livello. Penso alla devozione dei genitori per i loro figli, a quella dei figli per i genitori, all’altruismo quotidiano. È qualcosa che abbiamo sotto gli occhi tutti i giorni, ovunque ci troviamo. La devozione è un atto d’amore».
Lei è stato testimone di molta di questa bellezza.
«Ho avuto la fortuna di girare il mondo liberamente. Non vengo inviato: vado dove penso si possa trovare qualcosa da documentare, qualcosa che valga la pena fotografare».
Come fa a scegliere?
«Cerco di capire dove c’è bisogno di me e del mio lavoro. Dove occorre un testimone.
Spesso si trova in situazioni difficili, dolorose.
«Il dolore fa parte del mondo che ho scelto di esplorare. Fotografare significa testimoniare l’una e l’altra faccia della medaglia: il bene e il male».
Come fa a bilanciarli?
«Scattare una fotografia che poi verrà pubblicata e diffusa significa mostrare a una fetta di mondo che non è testimone diretto, qualcosa che altrimenti non avrebbe mai visto».
È un modo per sensibilizzare chi è lontano?
«È un modo per fare aprire gli occhi, per mettere di fronte a una realtà distante chi non è abituato a pensare al di fuori dei propri confini. Per rendere edotti. Chi ha visto non può più dire di non sapere».
Risolve anche il paradosso del fotografo.
«Quello che chiede perché anziché scattare una foto non si è intervenuti in una situazione di difficoltà? Certo, in qualche modo. L’importanza della testimonianza giustifica di per sé l’atto».
Ultimamente i testimoni sono decuplicati, che ne pensa?
«Penso che sia un fattore positivo. Con i social scattare e diffondere fotografie è diventato semplicissimo, un’attività condivisa da milioni di persone e sicuramente molto più penetrante di quanto fosse quando era materia per soli reporter. Dal punto di vista dell’utilità – non entro nel merito artistico – è certamente un passo avanti. Pensi alla tragedia di George Floyd: il fatto che ci fosse qualcuno in grado di riprendere la sua morte ha reso impossibile che si potesse negare».
La fotografia è un mezzo oggettivo, più della scrittura?
«Lascia meno spazio alle interpretazioni ambigue. Poi, qualsiasi immagine può essere travisata o falsificata. Ma ogni professionista ha le sue convinzioni e storie da raccontare».
Lei è influenzato dalle sue convinzioni nel suo lavoro?
«Indubbiamente. Quando parto, lo faccio all’inseguimento dei miei interessi e quando decido che voglio provare a raccontare, a testimoniare una particolare situazione, lo faccio perché per me è importante che altri ne vengano a conoscenza. Credo che sia l’essenza della narrazione».
Vale ancora la pena raccontare il mondo?
«Tutti i giorni. Nel bene e nel male. Non è tanto la bellezza di quello che possiamo ancora vedere, di ciò che resta incontaminato o oggettivamente spettacolare, ma la meraviglia di un genere umano che non si dà per vinto».
Allora, magari, c’è speranza.
«Di sicuro ci stiamo dando da fare. Se il tempo sarà clemente, arriveremo sani e salvi al traguardo». —