la Repubblica, 10 ottobre 2023
Orson Welles e Pirandello
Orson Welles ha parlato solo una volta del suo progetto dall’Enrico IV di Pirandello. A Peter Bogdanovich, e con evidente soddisfazione: «Ci ho passato dei mesi su quella sceneggiatura. Se mai desiderassi pubblicarne una, vorrei che fosse quella...».
Ignorata o sottovalutata da quasi tutti gli studiosi, era ormai data per smarrita. In realtà una copia (messami generosamente a disposizione dal regista Emiliano Campagnola) esiste ancora, ed è un ritrovamento eccezionale di cui diamo qui conto per la prima volta.
Si tratta di un dattiloscritto di circa 170 pagine, in inglese, con rare annotazioni a mano. Non ha data, anche se è presumibile che risalga al 1951. Il titolo è Masquerade, seguito dalle indicazioni «A screenplay by Orson Welles» e, più in basso tra parentesi, «Based on a theme by Luigi Pirandello». L’idea di fondo, diversi personaggi e anche alcune battute sono infatti tratte letteralmente dal dramma di Pirandello, ma dentro Masquerade c’è molto altro.
L’ambientazione è l’Adriatico, al largo di Bari, sulla piccola isola immaginaria di Illyria. Come in Pirandello, il protagonista ha smarrito la ragione in seguito a una grande festa in maschera, dopo la quale ha continuato a vivere con le stesse regali vesti indossate al ricevimento. La giovane Frida che nell’Enrico IV si prestava a “guarire” il folle è qui Lise, un’attrice sedicenne in fuga dalla madre, una Contessa italiana il cui amante è il Conte Sandro Belcredi, proprietario dell’isola di Illyria, affittata all’“imperatore” perché ne faccia il suo regno personale.
Ma il vero motore di Masquerade è il personaggio del padre, assente nel testo pirandelliano. Nello script si chiama James J. Hamsun. È lui ad avere provocato la “follia” del figlio, calandogli in testa un candelabro in ottone massiccio durante la fatidica festa in maschera. Il litigio fra padre e figlio sembra essere stato causato da antichi dissapori familiari, una separazione fra i genitori della quale il vecchio Hamsun ha almeno una parte di responsabilità.
Uno degli elementi interessanti di Masquerade è che risuona di accenti religiosi. Si noti soprattutto questa battuta di Lise: «Fede? Fede in cosa? Nella giustizia di Dio, o nella bontà degli uomini? Sciocchezze. Bisogna essere dei santi per amare Dio malgrado i Suoi errori, e per credere che le persone siano buone devi essere un pazzo...».
L’intesa fra l’Imperatore e Lise, che conversano citando brani di Shakespeare (da La dodicesima notte, Amleto, Re Lear, La tempesta) è emblematica. L’abitudine di scambiarsi battute del Bardo c’era già fra Orson bambino e la madre. Non è un riferimento casuale: se il dramma della follia era in Pirandello legato al tradimento amoroso, la versione di Welles riguarda i traumi legati all’infanzia. Nella seconda metà il copione si assesta infatti decisamente sul confronto padre-figlio. L’Imperatore finisce per aggredire il genitore e fugge credendo di averlo ucciso. Quando si rende conto che il vecchio Hamsun è ancora vivo, lascia a Lise una lettera in cui annuncia il suo suicidio.
Molti film di Welles si concludono con la morte del protagonista ma pochi con un suicidio. Giusto l’Otello e Mr. Arkadin, cioè proprio la pellicola girata prima e quella girata dopo la scrittura di Masquerade. Anche l’incompiuto The Other Side of the Wind si chiude con un (presumibile) suicidio, e il nocciolo tematico ha in effetti a che fare con una figura paterna e una filiale.
Con la figura del padre, Orson ebbe un rapporto a dir poco irrisolto. All’età di sei anni assistette al litigio dopo il quale i genitori si separarono, mentre l’amante di mamma, il dottor Maurice Bernstein, diventava una sorta di genitore adottivo e, insieme, il peggior nemico di papà Welles. Il quale si lasciò lentamente andare sprofondando nell’alcolismo. Orson ha più volte sostenuto di sentirsi responsabile della morte del padre, avvenuta quando lui aveva quindici anni; il referto segnala malattie legate all’alcolismo ma Welles ha adombrato un tentativo di suicidio che sarebbe stato sollecitato dal suo rifiuto di vederlo negli ultimi sei mesi. Una condotta che, pur dettata dal tentativo di frenare l’alcolismo del genitore, ha sempre considerato «inescusabile». Né il ricorso alla psicoanalisi avrebbe potuto sbarazzarlo del senso di colpa. Come disse a Barbara Leaming, «non voglio perdonarmi. Ecco perché odio la psicoanalisi. Io penso che se sei colpevole di qualcosa devi conviverci».
Tutti i film di Welles vertono sul tema del tradimento ma Masquerade sarebbe stato l’unico ad applicarlo chiaramente al rapporto fra un padre e un figlio, in modo più esplicito che in Falstaff, rimestando fra le sue angosce più profonde.
ùIn Masquerade è evidente che Welles, da attore, si sarebbe riservato il ruolo del figlio, vicino a lui innanzitutto per età (nel ’51 aveva trentasei anni), ma è facile riconoscerlo anche nel personaggio del padre, un anziano tycoon affascinante e impulsivo, e come il vero Welles ben deciso a tenersi i propri traumi. Hamsun a un certo punto urla: «Non voglio essere analizzato! Tutti gli esperti sono venuti qui una volta o l’altra, e quando tornano per il loro report cominciano sempre ad analizzare tutto, specialmente me».
Un punto ribadito dalle parole di Giobbe che uno dei personaggi recita dopo la lettura del biglietto del suicida: «L’uomo nato da donna vive pochi giorni ed è pieno di inquietudini, come un fiore spunta e avvizzisce, fugge come l’ombra e mai si ferma...». Parole pronunciate per rispettare le volontà dello scomparso «di citare la Bibbia anziché Freud».
È una sceneggiatura appassionante, sorprendente, complessa. Trattandosi di un regista come Welles, è impossibile immaginare con quale stile e quali modifiche sarebbe stata realizzata se si fosse fatto avanti un produttore lungimirante. Masquerade rimane comunque soprattutto il film (mancato) in cui Welles si mette più a nudo, negli angosciosi traumi famigliari e in relazione al proprio credo religioso, due argomenti sui quali in vita ha scelto di rivelare il meno possibile.