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 2023  ottobre 10 Martedì calendario

Ezio Mauro e la fine del fascismo

L’inquadratura stretta sul cofano lucido e scuro di un’auto si allarga al cancello spalancato di una villa sulla Salaria, alle cinque del caldo pomeriggio del 25 luglio 1943 – che per la massa degli italiani è ancora soltanto una domenica di guerra come tante, non la data fatale dell’inizio della fine del regime.
Tra le due e le tre di notte, infatti, il Gran Consiglio del Fascismo, composto da 28 gerarchi, chiamato a esprimersi sull’ordine del giorno presentato da Dino Grandi, aveva messo il Duce con le spalle al muro, inchiodandolo al fallimento della “sua” guerra e ponendo bruscamente fine al suo governo, ma il Paese ancora non lo sa. Comincia così, attraverso lo sguardo sconcertato di Ercole Boratto, fedele autista di Benito Mussolini tratto in arresto senza preavviso in preparazione della cattura del Duce per effetto del voto di sfiducia notturno,
La caduta. Cronache dalla fine del fascismo di Ezio Mauro (Feltrinelli, pagg. 208, euro 20), nuova fatica dell’ex direttore di Repubblica che si dedica ormai da qualche anno al mestiere di “cronista di storia”. Il volume completa infatti l’ideale trilogia aperta da La dannazione. 1921. La sinistra divisa all’alba del fascismo e proseguita con L’anno del fascismo. 1922. Cronache della Marcia su Roma.
Mauro si colloca, in questo, in una tradizione illustre di grandissime firme che hanno messo penna e popolarità a servizio del racconto di pagine cruciali della storia nazionale a un più ampio pubblico di lettori: Enzo Biagi (che firmò pure un’inedita Storia d’Italia a fumetti), Indro Montanelli, ma soprattutto il giornalista-partigiano Giorgio Bocca, figura particolarmente cara a Mauro (che da ragazzo è stato, come il vecchio maestro, un “provinciale” del cuneese con la febbre della carta stampata), l’ex partigiano che raccontò Togliatti, la Resistenza, la Repubblica di Salò.
La caduta ci accompagna attraverso il flusso convulso degli avvenimenti dal 25 luglio all’8 settembre, giorno dell’annuncio dell’armistizio con gli Alleati (già firmato il 3 settembre) con l’approccio e la lingua fresche e veloci del giornalista, attingendo alla memorialistica, alla stampa, ai dettagli della vita materiale del tempo nonché – attraverso la mediazione delle opere storiografiche – a documenti di incredibile vividezza come i brogliacci delle intercettazioni telefoniche a tappeto predisposte dall’occhiuta sorveglianza fascista, che mettono a nudo miserie private, ricatti e meschinerie di regime. «Io ho pronta la documentazione di quello che erano e di che cosa sono, per ognuno di loro», dice Mussolini all’amante poco prima della riunione del Gran Consiglio, «ma credo che ciò non basti». Infatti non bastò a salvarlo (anche se, subito dopo, fu subito attivata una commissione d’indagine sugli arricchimenti dei gerarchi).
Il quadro è a dir poco desolante. In un Paese sfibrato dalla guerra, il Duce – che di quella guerra è l’artefice e il volto – è ormai l’ombra di se stesso, «gli occhi per sempre spaventati», travolto dal crollo delle menzogne della propaganda prima che da quella del suo dominio personale. «Io mi considero un uomo per tre quarti defunto. Il resto è un mucchio di ossa e muscoli in fase di deperimento organico», scrive alla sorella Edvige dalla prigionia; non a caso, in sintonia col vertice, la Repubblica di Salò sarà caratterizzata da toni e simboli macabri, come il teschio con la rosa in bocca scelto come effigie dalla Decima flottiglia Mas.
Il re, incurante dei sudditi, è preoccupato solo delle sorti della dinastia: per questo, dopo aver messo l’Italia nelle mani del Duce, ora ha fretta di dissociarsi da lui, mors tua vita mea; con il maresciallo Badoglio, gestisce la resa agli Alleati e il cambio di fronte come peggio non si potrebbe.
Mentre gli Alleati usano i bombardamenti a tappeto come mezzo di pressione per spingere gli italiani a ribellarsi e chiedere la resa, il vertice tentenna, terrorizzato dalla reazione dei tedeschi. Badoglio e la corona si nascondono dietro comportamenti ambigui, a volte addirittura grotteschi. Dopo aver stipulato in segreto la resa il 3 settembre, vorrebbero posticiparne l’annuncio il più a lungo possibile, ma gli Alleati li costringono a rendere pubblica la notizia il giorno 8, minacciando di diffonderla loro per primi, con tanto di filmato del momento della firma sotto la tenda in un uliveto a Cassibile, vicino Siracusa, svergognando l’Italia davanti al mondo intero, non solo agli occhi di Hitler.
Quattro giorni dopo, i rappresentanti del governo e della corona fuggono precipitosamente da Roma alla volta di Brindisi, senza nemmeno dare disposizioni alle forze armate per la difesa della capitale. La dichiarazione di guerra alla Germania sarà formalmente consegnata solo il 13 ottobre. A ripercorrere queste vicende vergognose, ci si stupisce che, a guerra finita, il margine di scarto tra Repubblica e monarchia nel referendum del 2 giugno 1946 sia stato così ridotto.
La catastrofe collettiva è costellata di drammi personali, dall’umiliazione di Rachele Mussolini quando viene esposta al pubblico ludibrio la relazione del Duce con Claretta Petacci (insieme agli affari e ai privilegi che aveva garantito all’insaziabile famiglia di lei), al dramma di Edda, la primogenita mondana e cosmopolita, moglie di Galeazzo Ciano, già ministro degli Esteri e poi “traditore”, condannato a morte per inflessibile volontà dei tedeschi.
Ma in quelle settimane fatali si consuma la morte del regime e della monarchia, non della Patria, come qualcuno ha voluto affermare.
Il giorno dopo la proclamazione dell’armistizio, a Roma, mentre il re e Badoglio preparano la fuga, si costituisce infatti il Comitato di Liberazione Nazionale, in cui sono rappresentati comunisti, socialisti, azionisti liberali, democristiani. Gli antifascisti escono dalla clandestinità e restano a presidiare la capitale abbandonata a se stessa. Una circostanza profondamente simbolica, a conferma di quanto giustamente uomini e donne della Resistenza si fregiassero del titolo di “patrioti”.
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