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 2023  ottobre 09 Lunedì calendario

Intervista a Vera Gemma

La gente, osserva Vera Gemma, «non ha voglia di capire e nemmeno di vedere». Se qualcuno, a suo tempo, avesse posato lo sguardo su quella ragazzina figlia d’arte, innamorata del padre famoso e bellissimo, e poi su quell’adolescente risoluta, bisognosa di attenzioni, forse le cose sarebbero andate in modo diverso. Tutto sarebbe stato più semplice, però adesso, per la secondogenita di Giuliano Gemma e Natalia Roberti, il sapore della riscossa non sarebbe stato così dolce: «Il paradosso della mia vita è che le cose più difficili mi risultano facili, e viceversa». La prova, dopo una stagione di successi internazionali, iniziata alla Mostra di Venezia del 2022 con i due premi Orizzonti, è che Vera, docu-fiction di Tizza Covi e Rainer Frimmel, rappresenta l’Austria, e non l’Italia, nella corsa agli Oscar 2024: «Mi sento come i calciatori della Nazionale che giocano in una squadra diversa da quella del loro Paese». Sensazione curiosa, in linea, nel caso di Vera Gemma, con il suo profilo da fiera dropout.
Perché si è sentita diversa?
«Sono sempre stata considerata una tipa strana, da escludere. A scuola non facevo parte di nessun gruppo, sono stata bullizzata, le uniche persone che mi si avvicinavano erano ribelli, con intelligenze speciali. Poi è successo che, con il tempo, abbia imparato ad accettarmi, a essere sincera, naturale, a non rifiutare la mia diversità, ma, anzi, a sottolinearla, a non dire quello che dicono tutti, a non essere politically correct».
Eppure era la figlia di un divo adorato come Giuliano Gemma.
«Sì, ma non incarnavo in alcun modo il ruolo di figlia di papà che le persone si aspettavano che fossi. Così, quando mi incontravano, restavano male, la loro idea di me veniva stravolta dal mio modo di pormi. L’Italia è un Paese ipocrita, piccolo borghese, il giudizio sugli altri è continuo, implacabile. Basta un modo di vestirsi ed ecco che scatta l’etichetta. Io per esempio ho un mio look, mi piacciono i cappelli da cowboy e li metto spesso, se fossi una star americana andrebbe tutto benissimo, ma guai se sei un’attrice italiana. Il modello su cui bisogna allinearsi è un altro».
Quale?
«Bisogna fare l’attrice intellettuale, tormentata, nevrotica, con i capelli sporchi, i tic, il bisogno di sottolineare l’odio per le interviste, per le ospitate in tv, per lo stare al centro dell’attenzione. Se non si rispetta questo modello si viene giudicate ignoranti. Io, invece, la penso in modo opposto, anche se sono laureata e parlo tre lingue, i tappeti rossi mi piacciono, e penso che questo mestiere sia fatto di generosità, non di voglia di sottrarsi».
Come è stata la sua infanzia?
«Bellissima, fin troppo felice. Si dice che le infanzie infelici siano causa di disagi che durano tutta la vita, per me è stato l’esatto contrario. Sono cresciuta nel momento in cui mio padre era al massimo della popolarità. Davanti alla nostra casa arrivavano pullman di giapponesi che avevano acquistato il pacchetto “viaggio a Roma più visita della casa di Giuliano Gemma”, io e mia sorella Giuliana venivamo riempite di regali, c’erano file di turisti che aspettavano autografi. E poi ricordo le visite sui set, Almeria, paella, flamenco, cowboy, e questo padre bellissimo, affettuoso, sempre a cavallo, e le domeniche nella nostra villa... con tutto il cinema italiano che veniva a trovarci».
E l’adolescenza?
«Ho iniziato ad aver bisogno di sviluppare la mia personalità, di farmi notare, ma avevo un modo sbagliato di attirare l’attenzione, i miei genitori mi rimproveravano, mi sentivo repressa. Crescendo ho anche scoperto falsità e difetti del mondo dello spettacolo. Mio padre lavorava di meno, era nervoso, a casa bisognava stare zitti, tutto questo mi pesava».
Giuliano Gemma è morto a causa di un incidente stradale. Un trauma terribile, come lo ha elaborato?
«Ho pensato tanto a una settimana passata insieme a Los Angeles in cui ho cercato di fargli fare tutte le cose più belle e più divertenti che potevo. Cose che non faceva da anni, siamo andati in giro, ho invitato a cena John Voight, abbiamo visto Sylvester Stallone, gli ho perfino organizzato una serata con la baby-sitter di mio figlio, Lola, che lo aveva colpito. Si era divertito come un pazzo. All’aeroporto, con gli occhi lucidi, mi disse “grazie di tutto”. È stata l’ultima volta in cui l’ho visto, ho ancora i brividi a ripensarci».
Un padre molto bello può essere un peso, lei lo ha sentito?
«Mio padre diceva “tu hai un tuo modo di essere bella, sei affascinante, che è molto più importante”. Mi ha comunicato auto-stima. Il problema sono state le critiche crudeli, quelle di chi ancora oggi continua a ripetere “eh, però il padre era molto più bello”. Ma è colpa mia se sono nata così? Non ho scelto io di essere come sono».
Come nasce l’amicizia con Asia Argento?
«Sul set del film del padre Tenebre, lei aveva 12 anni, io 16, la snobbavano tutti, era la più piccola del gruppo, io invece pensavo fosse molto intelligente. Ancora oggi mi dice “tu mi hai capita in un momento in un cui non stavo simpatica a nessuno”. Leggevamo insieme le poesie di Hermann Hesse e ci commuovevamo». —