Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2023  ottobre 09 Lunedì calendario

Che cos’è uno scrittore?

Che cos’è uno scrittore? La domanda è più interessante della risposta, e di risposte ce ne sono almeno quante gli scrittori. Da bambina non ero neppure sicura che esistessero davvero, questi scrittori, se non per il nome e cognome memorizzati dalle copertine dei romanzi amati. Ma quelle due parole da sole non significavano nulla, non rimandavano neppure per forza a un essere umano, erano una stringa, un sintagma – sapevo solo che se le avessi trovate su un’altra copertina sarebbero state garanzia di un’esperienza simile, altrettanto goduriosa. Così cercavo Roald Dahl, Bianca Pitzorno, Sir Artur Conan Doyle, fantasmi invisibili dietro le loro storie, quelle sì mi interessavano. Che cosa fosse uno scrittore lo desumevo dai libri stessi: scrittrice era Jo March di Piccole donne che leggeva in soffitta mangiucchiando una mela e piangeva di rabbia quando scopriva che il suo manoscritto era bruciato. La scrittrice era lei, mica Louise May Alcott, pure se le prime due pagine della mia edizione Mursia raccontavano della biografia del nome in copertina, che saltavo con fastidio: chi era quell’estranea che si metteva in mezzo tra me e la mia storia preferita? Non volevo saperne niente.Qualche giorno fa, Rosella Postorino ha scritto che gli scrittori scendono all’inferno al posto degli altri esseri umani e trovano un modo per raccontarlo, e io ho pensato che l’inferno è tante cose. L’inferno è l’esposizione di una presentazione o di un’intervista, è l’attacco di panico prima di salire su un palco e a volte sul palco stesso, è sentirsi umiliati o inadeguati dal parlare in pubblico con altri. Non faccio esempi a caso: so bene di che parlo. Ma l’inferno è anche sparire, non esistere, far esistere i propri personaggi al posto proprio, e viversi un altro inferno che poi forse finirà in un altro libro. Difficile pensare a qualcosa che non sia inferno, per gli scrittori – o almeno, difficile pensarlo per me. Del resto, se si avessero le parole per essere amabili o cortesi nella vita quotidiana, le parole giuste per arrivare a tanti e toccar loro il cuore, non si sceglierebbe di non rivolgere la parola a nessuno per ore, chiudendosi in casa a seguire vite immaginarie di gente che non esiste. Perché è quella l’unica cosa che conta, e il resto è puro contorno. Postorino scriveva anche molto giustamente che è un controsenso chiedere agli scrittori di essere affabili, salire su un palco ed essere gradevoli – capita di farlo, certo, ma non è il loro compito, non è il loro dovere. E allora, perché accade? È vero che non ci si può sottrarre? Torniamo alla domanda principale. Che cos’è uno scrittore? Stare sul palco di una rassegna o ricevere un premio lo aiuta a farsi conoscere dal mondo o lo denigra, aggiunge o toglie alla sua arte? Ciclicamente uno scrittore scoppia, si dichiara saturo di mondanità, dice addio al pubblico – al pubblico in carne e ossa, non ai lettori – per sempre o per un po’. Maurizio De Giovanni ha scritto di non voler più partecipare a eventi pubblici a sostegno di altri, dopo la sgradevolissima scoperta che quegli altri, meno famosi, che gli chiedevano di presentare i loro libri, passavano il tempo a parlar male di lui chiamando presenzialismo la generosità che stavano sfruttando. Le conversazioni tra intellettuali possono essere dense e interessanti, anche miliari, ma non farle non toglie nulla a uno scrittore. Se avessi potuto assistere, da ragazza, a una conversazione pubblica tra Sciascia, Consolo e Bufalino, sarei impazzita di felicità uscendone arricchita – ho immaginato mille volte questa possibilità, sognandola sulle mitiche foto di loro tre insieme alla tenuta della Noce. Mi sembravano uniti, fortissimi nel rappresentare la Sicilia con tre facce diverse. Pare che poco dopo ci siano state fra loro discussioni furiose, e che quel legame in parte si sia sfaldato. Toglie qualcosa alla potenza di quella foto? No. Uno scrittore è ciò che l’occhio cattura in quel momento, ciò che lui decide di esporre di sé: non si è più o meno scrittori se si usano o meno i social, se si ritirano o meno i premi, se si va o meno alle rassegne. E non si è scrittori per sempre allo stesso modo, se la scrittura è la vita: perché cambia con la vita.Quando ero più giovane, pur nella stanchezza e nella rabbia di sprecare un tempo che avrei dedicato più volentieri ai miei romanzi, provavo una certa ebbrezza nel girare il mondo scoprendo posti in cui mai sarei stata se i libri non mi avessero portato fino a lì. Erano, quei viaggi, con le loro disavventure e le mie ansie, essi stessi scrittura: mi piaceva ritagliare scampoli, accendere il computer in stanze sconosciute, nell’anonimia temporanea di un hotel. Oggi non trarrei molto da esperienze così: trovo più letteratura al parco con mia figlia, ogni giorno a fare la stessa cosa in modo sempre diverso, in una ripetitività che mi consente uno sguardo nascosto e vigile sulla mia piccola parte di mondo. Domani, chissà. Non ho mai smesso di pensare che essere scrittore fosse altro dal nascondersi ed esporsi dentro ciò che si scrive. Il resto può esistere o sparire, alla bisogna. E, come diceva Nora Ephron, è tutto materiale.Dunque, dov’è lo scrittore? Elena Ferrante non è da nessuna parte, eppure è ovunque: riceve premi che non ritira personalmente, rilascia interviste, pubblica liste di libri imperdibili. Di Erin Doom, fino a qualche tempo fa, non si conosceva il viso, eppure i suoi libri sono nelle borse e nelle stanze di tutti gli adolescenti italiani. L’anonimato può essere un vezzo, una postura, tanto quanto il metterci la faccia, può essere l’inizio di una carriera come fu per Luther Blisset (poi Wu Ming), un rifugio anche legale (come fu per Melissa Panarello, minorenne all’epoca del suo esordio Cento colpi di spazzola prima di andare a dormire). Pseudonimia ed eteronimia hanno sempre fatto parte della libertà degli scrittori, che possono considerare il proprio nome parte del gioco, si pensi a Pessoa e al modo in cui sceglieva i nomi con cui firmare i libri. Perfino la presenza fisica è sempre stata una questione, dalla notte dei tempi, dato che aedi e rapsodi poetavano a corte e spesso ne erano stremati. Nella storia della letteratura trovano posto allo stesso modo Emily Dickinson, diventata l’emblema della poeta nascosta al pubblico, e Charles Dickinson, che a malincuore nel 1868 deve interrompere il tour di cento letture in tutta America, da Baltimora a Filadelfia, tour che aveva programmato meticolosamente, fermandosi a settantadue presentazioni perché il medico gli proibisce di continuare (morirà due anni dopo). Nessuno dei due è più scrittore dell’altro: hanno entrambi cercato il loro inferno, e trovato il modo di raccontarlo. —