La Stampa, 9 ottobre 2023
Quel che resta dell’Ilva
«Sono in cassa integrazione da più di cinque anni, nel mentre mi hanno operato di tumore alla tiroide. Mi hanno distrutto la vita. Mi sento una nullità, sono finito dallo psicologo». Raffaele ha 53 anni, è uno dei 1447 lavoratori ex Ilva in Amministrazione straordinaria, attualmente in cassa integrazione. Da sempre in prima linea a sue spese, è stato tra le prime teste a saltare.
Taranto, città dei due mari. Quando l’Italsider (il siderurgico di Stato) mollò gli ormeggi, l’allora presidente del Consiglio Aldo Moro, annunciò 50mila posti di lavoro in 20 anni. «Lo Stato ha preso seriamente coscienza della questione Meridionale. Quella fabbrica metterà fine al divario tra Nord e Sud» disse il presidente della Repubblica Saragat.
Oggi che la rinascita del Sud non è passata da lì, e la questione Meridionale non è stata risolta, lo sanno anche le pietre. Non è mai colpa di nessuno però, di nessun governo, non è colpa dei privati, dei Riva, che l’hanno rilevata alla fine degli anni Novanta e lasciata in pezzi nel 2012 con l’esplosione dell’inchiesta Ambiente Svenduto. Una condanna in primo grado per disastro ambientale doloso e colposo. Morti, malati, tumori, bonifiche da fare. Perizie epidemiologiche che hanno ricostruito che «l’andamento della mortalità ha seguito in modo speculare l’andamento della produttività».
Cosa è accaduto da quel 2012 lo riassumo così: commissari di governo, decreti Salvi Ilva, deroghe costituzionali ai diritti fondamentali, decreti per definire “strategica la fabbrica” e consentirne la produzione nonostante il sequestro degli impianti. Undici anni di promesse ("decarbonizzeremo”, “faremo i forni elettrici”, “l’acciaio verde"), miliardi buttati tra ammortizzatori sociali, debiti e incentivi ai privati, tutto a carico dei contribuenti. Cioè tutti noi. Battaglie legali, attacchi alla magistratura, colpevole di essersi intromessa nella politica industriale del Paese portando alla luce quello che sapevano tutti e cioè che l’inquinamento uccide e che una fabbrica così grossa, più della città stessa, vetusta, l’unica ancora a ciclo integrato, dal minerale grezzo fino al prodotto finale, non poteva convivere in quello stato con scuole, parchi, case. Gli anni di commissariamento dovevano dettare l’inizio della svolta.
Nel 2023, undici anni dopo a che punto siamo? Se una fabbrica è strategica per il Pil di un Paese intero, sono strategici anche i lavoratori che la fanno marciare? «Vado avanti con il fido della posta, il mio reddito 2022 è stato di 17mila euro. Voglio che mi mandino una lettera di licenziamento. Io non me ne vado. Non sono un materiale di scarto. Devono offrire un’alternativa». «Sono in cassa integrazione da aprile, ma il mio è un caso particolare». In che senso. «Lo stipendio è troppo basso, così ho chiesto ai miei capi di reparto, mettetemi in cassa sempre, almeno vado fuori a fare il manovale. Mi servono soldi». Fuori lavori in nero però? «Eh si … come molti altri».
R. non fa parte dei cassaintegrati di Ilva in Amministrazione straordinaria. Lui è un assunto Mittal. Perché nel frattempo la storia è andata avanti così. L’Italia ha indetto una gara per vendere ai privati e togliersi di mezzo e ha scelto il colosso franco-indiano Arcelor Mittal. Regalo di nozze tra gli altri: lo scudo giudiziario per gli acquirenti. Quando al governo è arrivato il M5S, Luigi Di Maio ha promesso oltre che di abolire la povertà anche di cancellare l’immunità. Ma senza quelle tutele legali ArcelorMittal si è ritirato dal tavolo. È finita a tarallucci e vino. Lo scudo è tornato. Non solo. Nel 2020 ArcelorMittal ha firmato un accordo di investimenti «vincolante con Invitalia, una società controllata dallo Stato italiano, formando una partnership pubblico-privata».
Nel 2021 è nata Acciaierie Italia. Presidente Franco Bernabè, amministratore delegato Lucia Morselli, con la prima capitalizzazione (400 milioni di euro bruciati in 15 giorni) con cui Invitalia è entrata nel capitale sociale di AM Investco Italy assumendo il 38% del controllo. Insomma lo Stato è uscito da una porta ed è rientrato da un’altra promettendo di diventare socio di maggioranza. Ma ad oggi non l’ha fatto. E gli operai nel frattempo? Francesco Brigati, segretario Fiom Cgil Taranto: «Le nuove procedure di cassa integrazione prevedono un numero massimo di 2.500 lavoratori e mediamente ne abbiamo già circa 2.200». Più i 1447 operai in cassa dell’Amministrazione straordinaria, (dati aggiornati ad aprile 2023: a quella data avevano accettato l’incentivo all’esodo 1.396 lavoratori totali) fanno 3.647 esseri umani, a quanto pare non strategici. I più disgraziati sono proprio i 1.447 dell’Amministrazione straordinaria che nessuno sa chi avrebbe l’obbligo di riassumere. «Nell’accordo del 6 settembre 2018 – continua Brigati – era prevista la clausola di salvaguardia occupazionale che prevedeva il reintegro con l’aumento della produzione a 8 milioni di tonnellate di acciaio. La prima scadenza era il 23 agosto 2023 (non rispettata) e non oltre il 30 settembre 2025».
Ma siamo ben lontani dagli 8 milioni di tonnellate, a malapena si sono raggiunti i 3 milioni. Nel frattempo però, c’è stato un nuovo accordo il 4 marzo del 2020 in base al quale il colosso franco-indiano pare non sarebbe assolutamente obbligato a reintegrare tutti. Il dato è emerso chiaramente nel corso di un incontro organizzato il 16 settembre scorso dall’Unione Sindacale di Base dal segretario Francesco Rizzo con l’onorevole Dario Iaia (Fratelli d’Italia), l’onorevole Ubaldo Pagano (Pd), l’onorevole Vito De Palma (Forza Italia), il senatore Mario Turco (Cinque Stelle). In rete c’è la diretta integrale. In sintesi è andata più o meno così. Turco è partito in quarta attaccando il governo Meloni, Iaia ha risposto a tono leggendo stralci di questo accordo firmato nel 2020 proprio dal Movimento Cinque Stelle. «No l’ha firmato il Mef a guida Pd» ha ribattuto Turco. Insomma il solito teatrino della politica che si rimbalza le responsabilità. E l’operaio con il cerino in mano. Brigati, Fiom: «L’accordo del 4 marzo 2020 non lo conosciamo, c’è stato impedito di discuterlo. Per cui per noi non vale, tutti i lavoratori devono rientrare».
Vedremo, per ora la fabbrica è a rischio imminente chiusura. In che direzione si va non è assolutamente chiaro. Davide Sperti, segretario Uilm Taranto è lapidario verso le scelte che anche il governo Meloni sta facendo: «A novembre dell’anno scorso quando il ministro Urso ci convocò, ci disse che non era possibile continuare ad erogare soldi pubblici, cioè dei contribuenti ad una società privata senza nessuna garanzia sul controllo e indirizzo della governance industriale. È un privato che saccheggia e basta. Eravamo sorpresi ma d’accordo. Dissero: da ora in poi subordineremo i finanziamenti pubblici da stanziare ad un cambio della governance». Tradotto significa che anche il governo Meloni era pronto a nazionalizzare e a mettere in minoranza Mittal. «Il 19 gennaio 2023 invece – continua sempre Sperti – è cambiato tutto, ci hanno detto che stavano lavorando ad un accordo di programma sempre con Mittal. Ma in che senso? Senza un programma di cosa si parla? Gli hanno poi regalato i famosi 680 milioni e non sappiamo nemmeno come sono stati spesi. Gli impianti cadono a pezzi, in estate ai lavoratori è mancata spesso anche l’acqua minerale. A settembre l’ultimo aggiornamento: Palazzo Chigi sta trattando ancora con Mittal. Un nuovo patto a perdere sulla vita delle persone?».
Gregorio lavora nel reparto IMA al Porto, quello da cui si spedisce il prodotto finito ai compratori. «Solo lamiere e rotoli in minima quantità. Tubi non ne facciamo più. Arrivano pochissime navi, quelle per destinazioni straniere sono un miraggio. Una ogni tanto per Barcellona. Su 21 giorni lavorativi in un mese al massimo ne faccio 7. Tutti gli altri in cassa integrazione». «Racconto quello che vedo con i miei occhi. Mancano le basi per la manutenzione impianti. Capita che smontiamo pezzi da una macchina che funziona per montarli su un’altra rotta. L’estate scorsa non avevamo guanti idonei per lavorare. Abbiamo fatto marciare lo stesso l’impianto, stando attenti a non farci male, per non fare altri giorni di cassa».
Eppure «la siderurgia italiana è leader, siamo primi in Europa per acciaio verde decarbonizzato» ha detto Antonio Gozzi, presidente di Duferco e di Federacciai in un’intervista al Giornale: «L’80% dell’acciaio italiano non è più Ilva, per cui, per quanto resti un polo strategico, l’impatto sulla produzione è relativo». «L’ex Ilva, invece, è come una vecchietta di 90 anni a cui stanno dando una flebo per farla sopravvivere. L’unico dato positivo è che “quantitativamente” non “qualitativamente” sono diminuite le emissioni diffuse, ma avendo molti meno impianti in marcia e producendo appena 3 milioni scarsi di tonnellate di acciaio è un dato anche scontato. Gli stessi impianti a 8 milioni di tonnellate cosa causerebbero?». Gli operai parlano come fiumi in piena, chiedono di non scrivere i loro nomi: «Ti ricordi quel collega che licenziarono solo per un post su Facebook?».
Il siderurgico è in salute, ripete invece Acciaierie Italia. Sono stati fatti molti investimenti. Il 28 settembre scorso c’è stato l’open day organizzato per i clienti. Chissà quanto è costato. «Siamo 450 persone, da Europa e Italia, stiamo facendo del nostro meglio» dice Andrea Bellicini, direttore commerciale Acciaierie Italia. Il video reportage dell’evento è sul sito del gruppo siderurgico. L’amministratore Delegato Lucia Morselli saluta i presenti, mostrando alle sue spalle una gigantografia dei manifesti che i sindacati Fim-Cisl, Fiom-Cgil e Uilm hanno fatto affiggere in giro per la città. C’è la sua faccia e accanto la scritta: «A Lucia Morselli per lo Straordinario risultato raggiunto: minimo storico di produzione, utilizzo massiccio della cassa integrazione, nessuna prospettiva industriale e ambientale, nonostante i cospicui finanziamenti pubblici ricevuti». Morselli scherza con la platea: «Me li sono pagata io naturalmente». Strappa un applauso. Fuori i lavoratori sono in sciopero. «Sono qui da 1500 giorni – dice Morselli – quattro anni, ci vuole ogni giorno coraggio. Abbiamo fatto tutti gli investimenti, abbiamo cambiato i processi produttivi. Rivoluzioni importanti ogni settimana». Nella nota del 24 febbraio 2023 con cui l’azienda ha chiesto la proroga della cassa integrazione straordinaria, c’è scritto che «per il completamento degli obiettivi la società ha impegnato investimenti per un valore di oltre 2 miliardi di euro in 5 anni (220-2024)».
«Dicono che il 95% degli interventi di ambientalizzazione è stato fatto, ma se è così vuol dire che quel 5% di lavori che rimane da fare sono i più importanti». Fabio Cocco è da vent’anni in fabbrica. Vive al quartiere Tamburi, quello che sorge a ridosso di forni, collinette e ciminiere e conta malati di tumore e leucemia in ogni famiglia. «Gli altoforni marciano come marciavano prima. Hanno fatto alcune migliorie, piccoli accorgimenti. Ma ormai si fa pochissima manutenzione. Io queste cose le dico perché le vivo, le vedo. L’unica paura che ho è che prima o poi possa accadere qualcosa di brutto. Una catastrofe, non un morto, ma 20 o 30 di noi insieme». Fabio di battaglie ne ha fatte tante. In fabbrica e in quartiere. Il miliardo per la decarbonizzazione non c’è più, il governo Meloni l’ha cancellato. Quindi ci credi ancora? «No, umanamente parlando lo so che quello stabilimento andava chiuso anni fa. Anche se la produzione è ai minimi storici, a Tamburi le porcherie arrivano lo stesso, gli impianti sono vecchi, disastrati, non trattengono nulla. Lo spolverio, la ruggine, il carbone sui balconi, sulle macchine, sui panni, li ritroviamo sempre. Certo, non come gli anni passati». E allora perché resti? «Devo mettere il piatto a tavola e vado avanti, chiedo risposte al governo, ma siccome abito anche Tamburi, vedo tutto, le persone che soffrono, si ammalano, è una condizione psicologica difficile. Non c’è più tempo». —