la Repubblica, 9 ottobre 2023
Intervista a Don McCullin
La sua immagine di un marine americano impietrito dalla paura, le mani strette attorno al fucile, è uno dei simboli della guerra nel Vietnam.
Nell’arco di una carriera durata più di mezzo secolo ha documentato in prima linea l’orrore dei conflitti in Africa, Asia ed Europa, dalla fame in Biafra al muro di Berlino, dal Congo ai Troubles in Irlanda del Nord, dal Bangladesh a Israele, ma è celebrato anche per i suoi ritratti e paesaggi, dagli slum metropolitani alle placide campagne di Re Artù, così come per le nature morte, vasi di fiori che sembrano pennellate. Nato in un quartiere disagiato di Londra, considerato il più grande fotografo inglese vivente, vincitore di tutti i maggiori premi internazionali, 88 anni oggi, Don McCullin è in partenza per Roma, dove da domani al 28 gennaio prossimo è allestita a Palazzo delle Esposizioni, il museo presieduto da Marco Delogu, fotografo di fama ed ex direttore del Festival della Fotografia della capitale, la più grande retrospettiva delle sue opere mai realizzata: una mostra che comprende gli esordi, le guerre, i reportage sull’Inghilterra pastorale e in giro per il mondo per l’Observer e ilSunday Times,accompagnata dalla pubblicazione a Londra di un suo nuovo libro, Don
McCullin – Life, Death and Everything in Between.
Un’occasione irripetibile per ascoltare l’ultimo grande maestro di una leggendaria generazione di fotografi.
Cos’è la fotografia per lei, McCullin?
«È quel che mi ha dato la vita. Ho smesso di studiare a 15 anni, ho lavorato su un treno a vapore, poi ho fatto il servizio militare in Africa, da dove sono tornato con una macchina fotografica. Al mio ritorno a Londra mi sono ritrovato nello stesso quartiere di miseria e violenza in cui ero cresciuto. Ho fotografato una gang di giovani criminali, un giornale ha comprato le mie immagini e il resto, come si usa dire, è noto».
E cosa trasforma una foto in un’opera d’arte?
«Due ingredienti: una storia da raccontare e la sensibilità per esserne coinvolti».
Perché sostiene che le foto di guerra sono una manipolazione?
«Perché sfruttano il dolore per creare emozioni. Io ne ho scattate tante e porterò per sempre con me il senso di colpa di avere avuto successo a spese delle sofferenze altrui».
Chi erano i suoi modelli da giovane?
«Uno era il grande fotografo ebreo tedesco, ma affermatosi in America, Alfred Stieglitz. Un altro Robert Capa, il grande fotografo di guerra. Si impara sempre dal passato. Amo la luce nei quadri di Caravaggio e ho cercato diriprodurla in certe mie immagini: nelle sue opere si avverte il dramma che aveva dentro di sé».
Come è nata la sua famosa foto del soldato americano in Vietnam nel 1968?
«Durante la battaglia per la riconquista da parte americana dell’ex città imperiale di Hue. Durò due settimane. C’erano intensi bombardamenti: alla fine della città imperiale rimase poco. Vidi questo marine seduto con lo sguardo nel vuoto, scattai cinque foto e lui, paralizzato dal terrore, non sbatté le ciglia neanche una volta. Un sergente lo insultò per indurlo a combattere. Mi allontanai. Dov’ero un attimo prima cadde un colpo di mortaio, mancò di un soffio il soldato, centrò il sergente. La guerra è come tirare i dadi, muori quando dovresti vivere, vivi quando potresti morire».
Fotografare persone e paesaggi è un’esperienza differente…
«L’esperienza che mi ha curato dallo stress di avere visto troppi morti: non solo militari ma soprattutto civili, anche bambini.
Stavo perdendo la testa.
Fotografare la campagna del Somerset, dove vivo ora, immersa nel mito di Re Artù, una terra in cui si avverte l’energia della storia, mi ha guarito. Dopo avermi fatto stare male, la macchina fotografica è stata la mia medicina».
Se le dico i nomi di qualche celebre fotografo, mi dice cosa ne pensa? Irving Penn…
«Più un artista che un fotografo».
Annie Leibowitz…
«Ha fotografato tutte le persone più famose del mondo e alla fine è diventata più famosa delle persone che ha fotografato. Bravissima, ma lavora con tanti assistenti, a me piace lavorare da solo».
Robert Frank…
«Ha catturato lo spirito dell’America, uno straordinario fotografo».
Ansel Adams…
«Un iconico fotografo di paesaggi, ma i suoi sono così perfetti da diventare sterili, senz’anima».
Diane Arbus…
«Aveva un occhio eccezionale, andava a caccia di sbandati come se fosse a un safari, alla fine è diventata lei stessa una preda, togliendosi la vita».
Come nacque la sua collaborazione con Michelangelo Antonioni per “Blow-Up”?
«Il regista volle conoscermi quando venne a girare il suo film sulla swinging London. Allora abitavo in una casetta in un anonimo sobborgo. Arrivarono due limousine piene di italiani che a me sembravano vestiti come mafiosi, ne scesero Antonioni e mezza dozzina di collaboratori, in casa non avevo posto per tutti.
Michelangelo fu molto gentile. Finii per fare tutte le foto per Blow-Up.
Molti anni dopo scoprii che un produttore se le era tenute e voleva venderle all’asta, ma riuscii a fermarlo».
Che consiglio darebbe a un giovane fotografo?
«Di non aspettarsi di fare soldi con i reportage di guerra. Il fotogiornalismo non esiste più. I giovani che vanno al fronte con la macchina fotografica sono per lo più free-lance che vendono le loro immagini per quattro soldi e rischiano la vita senza un’assicurazione. La società e i giornali sembrano interessati soltanto al glamour, alla celebrità, al successo, non ai perdenti e a chi soffre».
Le capita mai di scattare una foto con l’Phone?
«Ne ho scattata soltanto una, a Istanbul, con l’iPhone di un amico, per fotografare un mosaico romano di due gladiatori che combattono con un leone: non avevo una macchina fotografica con me. Non ho confidenza con smartphone e computer. E non ho nemmeno una passione per le macchine fotografiche: le uso come uno spazzolino da denti, sono uno strumento per i miei occhi».
Visto che sta andando a Roma, cosa rappresenta per lei l’Italia?
«Il Paese più fortunato del mondo, ha il clima, il cibo, la gente più belli. E sono affascinato dalle vestigia dell’Impero romano, che ci rivelano la grande bellezza dell’antichità, anche se dietro tutta quella bellezza c’era un lato oscuro, crudele, quei templi e quelle arene erano costruiti da schiavi».
È mai tornato a Finsbury Park, il quartiere di Londra in cui è nato e dove ha iniziato a fare foto?
«Ci sono tornato quattro anni fa con una troupe della Bbc che girava un documentario su di me.
Ho ritrovato casa mia, un seminterrato dove adesso vive una donna dei Caraibi che l’ha reso un po’ più abitabile. Ma non mi ha fatto piacere tornarci. Troppi brutti ricordi. Mio padre morto quando ero piccolo, il razzismo, la bigotteria, la povertà, la violenza.
Sarei potuto diventare un criminale anch’io. Come dicevo all’inizio, mi ha salvato la fotografia».