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 2023  ottobre 09 Lunedì calendario

La crisi della democrazia


Ci risiamo. Pandemia, invasione ru ssa dell’Ucraina, pressioni generate dall’insicurezza economica, ondate migratorie dall’Est e dal Sud, tensioni regionaliste e nazionaliste «sembrano presagire nuove riconfigurazioni politiche e crisi dell’autorità statale». Lo scrive Martin Conway in un importante libro, L’età della democrazia. L’Europa occidentale dopo il 1945, in uscita il 13 ottobre per Carocci. Al termine di un viaggio dalla fine della Seconda guerra mondiale a oggi, l’impressione che la democrazia sia entrata «in un periodo di fluidità» appare a Conway «più giustificata che mai». D’altra parte, «crisi», precisa Conway, «è un termine a cui si fa ricorso quando non si riesce a vedere che cosa sta nascendo». Però è ben chiaro quel che se ne sta andando: si sta dissolvendo l’Europa del secondo dopoguerra e ne verrà alla luce un’altra.
Quali sono state le avvisaglie? La disaffezione verso i partiti politici consolidati si fa sentire attraverso «la sempre maggiore volatilità delle scelte elettorali». A cui si aggiunge «l’alienazione di una percentuale crescente della popolazione dal processo politico». Ciò che ha prodotto un rapido calo nella partecipazione al voto (elettorale e referendario). Accompagnato dall’irruzione di nuove retoriche antipolitiche. Nonché di forme d’azione diretta (di destra e di sinistra) che dimostrano «il diffuso discredito in cui versano le istituzioni del processo democratico». Tale senso di crisi, precisa l’autore, è qualcosa di molto diverso dai travagli provocati dalle «pur invecchiate» strutture parlamentari e costituzionali. D’altronde quelle strutture erano state progettate per un’epoca precedente. Oggi nel nostro continente questa nuova sensazione di crisi «è così palpabile – e talvolta urgente – perché fa parte di una messa in discussione dell’identità europea assai più ampia». I confini geografici di questa Europa, la natura della sua struttura sociale ed economica, i suoi valori, tutto ci appare infragilito. Sperare che la crisi «possa essere risolta con alcune modifiche alle singole costituzioni nazionali, o alle strutture decisionali dell’Unione Europea», non è altro che «un desiderio illusorio».
Il modello di democrazia emerso nell’Europa occidentale dopo il 1945 era, sotto ogni punto di vista, figlio di quell’epoca: le sue mentalità, i suoi fondamenti ideologici e le relative gerarchie di classe, di genere, erano tutti «tipici della metà del Novecento». Pertanto, la percezione ampiamente condivisa secondo cui le istituzioni create allora non riescono più a rappresentare un quadro adeguato a società europee come quelle del XXI secolo è nient’altro che una «evidente verità». Il «motore del cambiamento», secondo Conway, a questo punto non può essere fermato. Come le politiche del 1789 non funzionarono allo stesso modo nel 1848 o nel 1870, così le strutture democratiche che si dimostrarono efficaci alla metà e negli ultimi decenni del Novecento non possono essere semplicemente «aggiornate» in modo da soddisfare le esigenze del nostro tempo. Non funzionerebbe.
La sminuita autorità delle strutture statali ha minato il prestigio e i poteri dei funzionari pubblici. I rovesci elettorali subiti dalle forze politiche consolidate – in primis democristiani e socialdemocratici, quasi dappertutto – hanno privato i dirigenti di queste formazioni «dell’abituale primazia e dei relativi benefici». Ma prima di ogni altra cosa, «della loro autorevolezza». Più in generale, l’emergere dei nuovi media ha abolito il ruolo privilegiato accordato dalla stampa e da un sistema radiotelevisivo finanziato dallo Stato a una certa élite di intellettuali pubblici. Nelle trasformazioni subìte dalle strutture democratiche europee non mancano dunque i «perdenti». Cosa che dovremmo tener presente nel considerare la pletora di previsioni di un futuro politico oscuro.
Soprattutto quando vengono da quei «perdenti». Sebbene «vi siano delle buone ragioni per guardare con una certa trepidazione agli sviluppi attuali della politica», dovremmo forse interpretare ciò che sta accadendo oggi (e probabilmente continuerà ad accadere nei prossimi anni) non come la fine della democrazia, «ma come la transizione da un modello democratico a un altro». Se ne ha conferma dalla lettura di Democrazia e ordine globale. Dallo Stato moderno al governo cosmopolitico (Asterios) di David Held. E, quantomeno in parte, di Postwar. La nostra storia 1945-2005 (Laterza) di Tony Judt.
Le strutture formali dell’organizzazione sono state rimpiazzate da «un mercato di dibattiti e campagne spesso guidato dall’immediatezza del mondo digitale, in cui slogan e simboli – tratti dai repertori della destra e della sinistra – vengono assemblati e riassemblati con esuberanza quasi arbitraria». Ma, se vale a consolarci, in questo cambiamento non vi è nulla di fondamentale che non si sia già visto in passato. Ed è superfluo soffermarci qui sulla crisi che investì l’Europa tra le due guerre mondiali. Ma anche prima. E dopo quel terribile ventennio. Ad esempio, andrebbero «riscoperte» (o comunque riportate alla memoria) «la retorica sulfurea, le richieste rabbiose e le politiche nazionaliste venute alla luce in molti Stati europei nel corso degli anni Novanta dell’Ottocento».
Oggi, come allora, «il cambiamento è alimentato principalmente dalla pervasiva realtà sociale dell’insicurezza». Gli effetti delle trasformazioni economiche globali, rafforzati dalla centralità assunta negli ultimi anni dalle forze del mercato in molti ambiti della vita quotidiana, hanno privato milioni di europei di qualsiasi senso di sicurezza economica. E – in modo più radicale – della speranza, detta in parole povere, di assistere a un miglioramento della situazione generale.
Nel secondo dopoguerra il più influente intellettuale che teorizzò la «stabilizzazione» delle democrazie fu, senza alcun dubbio, il filosofo politico francese Raymond Aron (1905-1983). Secondo Aron – L’etica della libertà. Memorie di mezzo secolo (Mondadori) – le democrazie che avevano messo radici ad ovest nel nostro continente dopo il 1945, erano qualcosa di più del «mero sottoprodotto dell’immobilismo politico imposto all’Europa (tanto occidentale quanto orientale) dalla guerra fredda. Per Aron erano invece un segno della raggiunta maturità di un nuovo modello di governo e di società che, senza aver sanato le divisioni del passato, le aveva tuttavia rese obsolete grazie a una combinazione di prosperità economica, di governance efficace e di impegno sociale. Così come nessuno avrebbe immaginato un riaccendersi del conflitto franco-tedesco, anche lo scontro politico tra i due estremi del fascismo e del comunismo era stato «trasceso» da una democrazia ormai egemonica. In virtù dell’ampio consenso che riteneva esistesse sulla natura essenziale del sistema politico, Aron sostenne quindi che il dibattito all’interno delle democrazie occidentali si era spostato su «questioni sostanzialmente secondarie», come il ruolo dello Stato nella definizione delle politiche economiche e le priorità relative da assegnare agli obiettivi dell’uguaglianza e della libertà.
L’Europa occidentale, osserva Conway, che pure condivide l’analisi di Aron quantomeno per i tempi in cui fu resa pubblica, poteva sì godere di una pace democratica, ottenuta però al prezzo della negazione delle libertà ai popoli delle dittature postfasciste di Spagna e Portogallo (dal 1967 anche in Grecia) e agli Stati controllati dai sovietici. Nonché a coloro che rimanevano sudditi senza diritti degli imperi coloniali europei. E a dispetto delle tensioni da guerra fredda simboleggiate dalla costruzione del Muro di Berlino (1961) e dalla crisi dei missili a Cuba (1962). Ma in buona sostanza il discorso di Aron teneva.
Poi negli anni Settanta qualcosa cambiò. I movimenti rivoluzionari nel Terzo Mondo, quelli studenteschi in tutto l’Occidente (e anche parzialmente ad Est), le conseguenze destabilizzanti della guerra del Vietnam, il colpo di Stato dei colonnelli greci (1967), i contraccolpi della repressione sovietica della Primavera di Praga (1968), generarono dubbi sulla tenuta della democrazia in Europa. Ne è testimonianza – definita da Conway «alquanto precoce» – il libro di un giornalista di «Le Monde», Claude Julien, pubblicato all’inizio di quel decennio: Il suicidio delle democrazie (il Saggiatore) concetto che, non bastasse, la casa editrice italiana tenne a sottolineare con un sottotitolo ancora più esplicito: La democrazia che è fallita. A dire la verità, scrive Conway, il titolo (e il sottotitolo italiano) del libro erano assai più enfatici del contenuto; ma la denuncia di Julien dei difetti della democrazia contemporanea, denuncia in parte politica e in parte morale, fece da apristrada a molte opere simili pubblicate in epoche successive. Gli elettori delle democrazie occidentali, scriveva Julien, erano «insoddisfatti, frustrati dalla mancanza di un controllo efficace su coloro che li governavano»; la prosperità materiale raggiunta dopo la guerra, poi, non era stata accompagnata da un «analogo progresso verso la giustizia sociale». L’Occidente, concludeva il giornalista di «Le Monde» tornando ad una retorica che era stata così popolare nel periodo fra le due guerre, stava vivendo una crise de civilisation. Che ne metteva in discussione l’intero ordine politico e sociale.
Nel corso degli anni Settanta le ansie di Julien si intensificarono; «sullo sfondo della crisi economica, delle ondate di scioperi e del riaccendersi della violenza politica in Europa, nonché delle rinnovate tensioni geopolitiche tra gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica», scrive Conway, molti analisti tornarono a prendere in esame quelle che per loro erano manifestazioni di crisi della democrazia. Un classico di questo genere fu Come finiscono le democrazie (Rizzoli) di Jean François Revel. Per questi studiosi – prevalentemente liberali e conservatori – l’Europa stava progressivamente abbandonando «quella razionalità che aveva puntellato la democrazia postbellica». Per «ritornare alle utopiche visioni di un cambiamento radicale». Il dibattito politico «era ostaggio di una cospirazione progressista» che aveva preso il sopravvento su quella massa formata da «cittadini ragionevoli e di mentalità conservatrice». Richard Nixon nel 1969, dopo essersi insediato alla Casa Bianca, la chiamò «maggioranza silenziosa» e la definizione circolò ampiamente in tutta Europa. Compresa l’Italia. In qualche modo questi concetti furono ripresi verso la fine degli anni Settanta da Aron – ad esempio nel libro In difesa di un’Europa decadente (Mondadori) – il quale scriveva che «la democrazia viveva un’epoca buia e solo una decisa difesa del principio della libertà poteva impedire un ritorno ai conflitti ideologici del periodo tra le due guerre». I moniti di Aron e di tanti altri erano «chiaramente esagerati», sostiene Conway. Ma questa circostanza «era meno importante del modo in cui queste apprensioni contribuirono a una rifondazione del dibattito sulla democrazia». Quel processo «il cui esito era sembrato inevitabile ora appariva un meccanismo rotto o sostanzialmente imperfetto, disprezzato da coloro che avrebbero dovuto esserne i difensori». Per di più «incapace di rispondere efficacemente alle sfide di un’epoca nuova e assai più incerta».
Si dovettero attendere la caduta del Muro di Berlino (1989) e la costruzione dell’Unione Europea perché quelle speranze (o illusioni) postbelliche sulla democrazia riprendessero vigore. Ma la crisi dei Balcani, le guerre d’Afghanistan e d’Iraq, infine l’aggressione russa all’Ucraina e il conflitto tra Hamas e Israele ci hanno resi tutti più circospetti. E prudenti. Attualmente, scrive Conway, «piuttosto che un brusco allontanamento dalle norme democratiche, il modello emergente sembra essere un misto di vecchio e nuovo, attraverso la coesistenza di istituzioni politiche familiari con la dirompente pressione esercitata da nuove cause e movimenti». Ma che questo «misto tra vecchio e nuovo» determini un assetto stabile e duraturo è ancora tutto da verificare.