Corriere della Sera, 9 ottobre 2023
Intervista ad Arturo Brachetti
Arturo Brachetti ha una casa magica. Esci dall’ascensore e ti trovi in vicolo dei Bordelli. Un raggio di sole entra da una feritoia e illumina la porta di mattoni, oltre la quale si apre il più grande tempio dedicato alla divinità locale: il proprietario e il suo ego.
Niente è come sembra: quello che pare vero non lo è, e viceversa. Due tigri in peluche a grandezza naturale si annoiano sui divani, mentre una terza prepara un’imboscata ai visitatori. Dei tre bagni, uno sembra una cappella medioevale con tanto di icona dedicata al santo Francessus protettore degli stitici; uno si ispira a Keith Haring e dal rubinetto esce acqua di colore diverso se è calda o fredda; il terzo è magrittiano, con il cielo in una stanza e una riproduzione di Le Grand Siècle che mostra Brachetti di spalle. Il padrone di casa compare anche sotto forma di marionetta, trompe-l’œil, sotto una campana di vetro. Per non dire dei manifesti degli spettacoli che tappezzano lo studio. Dalla vetrata in cucina si apre la meraviglia di Torino: la Cupola del Guarini con la Sindone, Palazzo Reale, la Mole, la Chiesa dei Cappuccini, Palazzo Madama e la Chiesa di San Lorenzo.
Trasformista, illusionista, attore, regista. Dove tiene i costumi?
«In un magazzino fuori Torino: sono 450, ogni tanto vado a respirare la storia che hanno catturato. Alcuni li ho indossati una volta sola. Li conservo tutti perché sono pieni di trucchi».
A quale è più affezionato?
«Ai frac bianchi, che uso nel finale dei miei spettacoli, fatti da diverse sartorie per il mondo. Ne ho sei o sette, raccontano 43 anni di vita artistica. Il primo è tutto liso. Quando morirò voglio essere sotterrato con uno di quelli».
Ha già scelto l’epitaffio?
«Il più bello me lo ha fregato Augusto Fregoli, il primo trasformista: “Qui compì la sua ultima trasformazione”. Il mio sarà: “Si è trasformato in qualcosa di meglio”».
Si diverte ancora a travestirsi pure nella vita reale?
«Certo. Per esempio quando vado a teatro a vedere i colleghi: pago sempre il biglietto così non sono costretto a passare in camerino se lo spettacolo non mi è piaciuto. E se proprio devo e non mi ha convinto, me ne esco con: “Quanta energia...”. Sprecata».
E il costume da prete?
«Grazie a quello un brigadiere non mi fece la multa mentre andavo a 70 all’ora su una strada da 50. Un’altra volta, con la complicità dei miei fratelli, andai a trovare mia zia per l’estrema unzione; lei aveva gli occhiali sul comodino, non mi riconobbe e cominciò a gridare: “Non sono ancora morta!».
Il momento che l’ha emozionata di più sul lavoro?
«Quando mi hanno dato il Premio Molière per l’Uomo dai mille volti, nel 2000 a Parigi. Non c’era nessuno della mia famiglia perché non mi aspettavo di vincerlo».
È amatissimo in tutto il mondo. La sua statua di cera è in quattro musei.
«Ora in tre: a Parigi, a Praga e in Svizzera. A Montréal ha chiuso: l’ho saputo tardi, altrimenti l’avrei acquistata».
Pensa di essere apprezzato più all’estero che in Italia?
«Ma no, mi sento molto appagato. L’unica cosa che mi fa un po’ di tristezza è che la televisione italiana, tutta, al di là di grandi complimenti non mi ha mai proposto un One Man Show».
E se glielo offrisse una piattaforma a pagamento?
«Bello! Però, anche lì... Ci sono colleghi che hanno fatto molto meno di me, venduto molti meno biglietti in Europa, e hanno i loro speciali».
Della sua vita sentimentale non si sa nulla. Perché?
«Per i miei spettatori io non ho sesso, sono come il personaggio di un popup».
È innamorato?
«Sì, da tredici anni».
Di un uomo o una donna?
«Non glielo dico, altrimenti lo scrive. Negli anni ‘70-’80 la sessualità era molto più libera di adesso e tutti abbiamo sperimentato un po’ tutto, quindi anche io ho avuto delle relazioni sia di qua che di là».
L’Aids stava arrivando.
«Per fortuna mia quando a Parigi vivevamo quella libertà sessuale sfrenata, non ho mai partecipato alle mega serate di orge: l’angelo custode mi ha evitato questo pegno».
Le dispiace non avere avuto un figlio?
«Per niente. Ne ho sentito il bisogno geneticamente a 30 anni. Però mi rendo conto di averne tanti artistici: sono i ragazzi ai quali do consigli, che incoraggio nella carriera. Penso a Gaetano Triggiano, Luca Bono, Filiberto Servi. Sono i figli che ho scelto».
Un’immagine di quando era un bambino?
«Vivevamo in periferia, in una Torino in bianco e nero dove io sognavo a colori. Dal balcone vedevamo l’insegna del Cinema Splendor: la guardavamo come se fosse la scritta Las Vegas».
Il primo film?
«Mary Poppins. Confesso che quando lo riguardo, la scena della vecchietta davanti alla cattedrale mi frega sempre e mi commuovo».
Il regalo più bello che ha fatto ai genitori?
«A mia madre con mio fratello e le mie sorelle regaliamo sempre la macchina, perché ha 86 anni, ma è molto indipendente: va al mare con le amiche. Forse però il primo grande regalo è stato quando l’ho fatta a venire a Parigi nel 2000, l’anno di svolta».
I suoi familiari lavorano tutti con lei?
«Ora solo mio fratello: mi fa da commercialista. Così se mi frega i soldi comunque finiscono ai miei nipoti».
Il 13 ottobre compie 66 anni. Sarà in scena al Teatro Alfieri di Torino, dove domani debutta con Diana Del Bufalo in «Cabaret – The Musical». Le canteranno la canzoncina sul palco?
«Forse sì. Già per i 60 mio fratello organizzò una sorpresa a teatro, riunendo un centinaio di amici. Mia madre con voce tremante lesse una lettera che aveva scritto in stampatello su un foglio con la marca da bollo da 500 lire. È difficile sorprendermi, ma quel giorno fu un’emozione».
Come nasce «Cabaret»?
«Me lo sento addosso: il film è uscito nel ‘72 e io nel ‘79 mi trovai per due settimane in camerino con Joel Grey, che aveva vinto l’Oscar per il ruolo di cui facevo il playback. Poi nell’83 ho incontrato il regista Bob Fosse. Ho vissuto gli anni scintillanti del cabaret vero, quello delle ballerine e dei politici con il tutù».
Si travestirà anche qui?
«Sì. C’è una scena in cui tutti cantano un inno e io esco come un Hitler nano che poi diventa un diavolo che abbraccia il mondo. Il linguaggio è quello della derisione e della caricatura».
Chiudiamo con la sua città: in cosa si sente torinese?
«Nel pissapicùrt, piscia più corto: non fare il passo più lungo della gamba. C’è una vocina che me lo ripete per frenarmi davanti ai progetti nuovi. Ma bisogna combattere il tran tran sabaudo!».