Corriere della Sera, 9 ottobre 2023
Da Monaco 1972 a Shalit (passando per Teheran). Quando il ricatto del terrore mette spalle al muro i governi
Monaco, 1972. Entebbe, 1976. Teheran, 1979. La cattura del carrista israeliano Gilad Shalit, 2006. Quando i governi si trovano con le spalle al muro si profilano, come insegna la storia, tre soluzioni: respingere il ricatto e abbandonare al loro destino gli ostaggi, tentare un atto di forza per salvarli o affrontare un negoziato per riportarli a casa a qualunque costo.
All’Olimpiade di Monaco del 1972, quando otto fedayn del gruppo Settembre Nero, affiliato all’Olp (Organizzazione per la liberazione della Palestina), assaltarono l’alloggio degli atleti israeliani, ne uccisero subito due e chiesero la liberazione di 234 prigionieri palestinesi in Israele per liberare gli altri nove, l’allora premier Golda Meir fece sapere da Gerusalemme che non sarebbe scesa a patti con i terroristi. Le autorità tedesche finsero di accondiscendere alla richiesta accessoria di un aereo per lasciare la Germania, ma all’aeroporto inviarono i reparti speciali e, dopo uno scontro a fuoco, i sequestratori uccisero tutti gli ostaggi. Morirono anche cinque palestinesi, mentre tre furono arrestati, diventando a loro volta merce di scambio, qualche settimana dopo, quando un altro commando palestinese ottenne la loro liberazione dopo aver dirottato a Zagabria un volo Lufthansa Damasco-Francoforte.
Andò meno bene quattro anni dopo ai dirottatori palestinesi dell’Airbus 300 proveniente da Tel Aviv e diretto a Parigi via Atene ma costretto ad atterrare a Entebbe in Uganda: 140 passeggeri furono liberati il giorno dopo, mentre altri 105 con passaporti israeliano, o identificati come ebrei, furono chiusi in un hangar. In cambio della loro incolumità, i terroristi chiedevano 5 milioni di dollari e la liberazione di una cinquantina di palestinesi detenuti in Israele e in altri Paesi. Quattro giorni e molte ore di trattative più tardi, quattro aerei Hercules C-130 dell’aviazione militare israeliana atterrarono di notte, sfuggendo ai radar, ai limiti dell’aeroporto di Entebbe: pochi minuti dopo iniziò l’assalto al terminal in cui erano reclusi gli ostaggi, tre dei quali morirono nel conflitto a fuoco. Gli israeliani uccisero tutti i sequestratori ma persero il loro comandante, Yoni Netanyahu, fratello dell’attuale primo ministro, Benjamin.
Gli ayatollah
La guerra asimmetrica ha colpito anche una grande potenza come gli Stati Uniti
Tre anni più tardi, il 4 novembre 1979, non c’erano palestinesi, ma diverse centinaia di studenti islamici iraniani ad assaltare l’ambasciata statunitense a Teheran, dopo la rivoluzione degli ayatollah di Khomeini e la fuga dello scià, Reza Pahlavi, accolto proprio dall’allora presidente americano Jimmy Carter. Tutto il personale diplomatico, 52 persone, furono tenute in ostaggio per quasi 400 giorni, fino al 20 gennaio 1981: il governo della Repubblica Islamica chiedeva per lasciarli andare la consegna di Reza Pahlavi. Sei funzionari del consolato americano che erano sfuggiti al sequestro e si erano rifugiati a casa dell’ambasciatore canadese furono esfiltrati e rimpatriati grazie a uno stratagemma di uno dei migliori agenti della Cia, Tony Mendez, il cui intervento fu reso noto soltanto anni dopo, con la sua autobiografia (1999), ed è stato poi raccontato nel film «Argo» diretto e interpretato da Ben Affleck nel 2012. La crisi degli ostaggi più lunga della storia americana si concluse poco dopo l’arrivo di Ronald Reagan alla Casa Bianca, con la mediazione di alcuni Paesi musulmani, l’Algeria in particolare, e lo scongelamento dei capitali iraniani nelle banche statunitensi.
Un finale tanto felice quanto insperato è stato, dopo cinque anni di attesa, quello del sequestro del militare israeliano Gilad Shalit, catturato da un commando palestinese durante un assalto a una postazione dell’esercito al confine con la Striscia di Gaza, nel giugno 2006. Durante l’attacco morirono altri due soldati e quattro furono feriti. Per restituire Shalit, all’epoca diciannovenne, i palestinesi chiedevano la liberazione di tutti i loro conterranei minorenni incarcerati in Israele e di tutte le donne. Tra rifiuti, lunghi periodi di stallo e riaperture dei negoziati, l’accordo fu raggiunto nell’autunno del 2011, quando Israele rilasciò un migliaio di prigionieri e Shalit tornò a casa.