Corriere della Sera, 9 ottobre 2023
Sinwar, l’uomo che che tiene in mano gli ostaggi
GERUSALEMME Ci sono voluti cinque anni perché Gilad Shalit potesse rimettere a fuoco il mondo attorno a sé, anche gli oggetti più vicini, i volti dei carcerieri di Hamas per sempre ombre scolorite, avevano rifiutato la richiesta umanitaria della Croce Rossa, un paio di occhiali per la forte miopia al posto di quelli persi durante l’attacco alle spalle di Gaza e il suo rapimento. Il giovane caporale era stato liberato nel 2011, Benjamin Netanyahu – già premier – aveva accettato di rilasciare 1026 detenuti palestinesi, tra loro Yahya Sinwar, il capo del gruppo fondamentalista che adesso stringe tra le mani il destino degli ostaggi rapiti sabato mattina dai terroristi.
In cella aveva passato un ventennio, condannato a quattro ergastoli anche per aver ucciso quelli che considerava collaborazionisti, accusati di aver passato informazioni al nemico. Un ruolo di guardiano della purezza ideologica – è stato lui a fondare negli anni Ottanta la polizia politica interna al movimento – e dei costumi. Nelle sparse apparizioni pubbliche, da quando sei anni fa è stato eletto boss supremo dentro la Striscia dopo due settimane di conclave segreto, non ha mai ostentato il lusso che circonda i proclami degli altri leader ben piazzati nei salotti del Qatar.
In mezzo ai 365 chilometri quadrati, di cui Hamas ha tolto il controllo all’Autorità palestinese con un golpe nel 2007, ci è nato 62 anni fa, a Khan Younis, verso sud-est e le aree da dove è partito l’assalto. Vicino di casa e compagno di giochi era proprio Mohammed Dahlan che sarebbe diventato un avversario (mai personale) nella lotta tra le fazioni palestinesi: Yahia con Hamas, Mohammed con il Fatah creato da Yasser Arafat. Mohammed che da direttore della sicurezza preventiva a Gaza taglia in segno di disprezzo le barbe devote degli islamisti. Yahia che non ammette oppositori all’interno del suo regno stretto tra Israele, l’Egitto e il mar Mediterraneo.
L’ebraico imparato nelle carceri israeliane gli ha permesso di scrivere una lettera a Netanyahu e – ha spiegato – gli dà un vantaggio nell’interpretare le strategie dei generali. Gli analisti dall’altra parte della barriera avevano annotato le sue minime aperture, qualcuno aveva sostenuto che fosse diventato più pragmatico, che si fosse ormai convinto, lui tra i creatori delle squadre paramilitari di Hamas, dell’impossibilità di abbattere lo Stato ebraico con le armi. O almeno non in una sola battaglia. Così ha alternato le tensioni ai compromessi ed è stato lui a ottenere il via libera da Netanyahu ai foraggiamenti dal Qatar, milioni di dollari portati in valigie dentro la Striscia dall’ambasciatore di Doha, in parte distribuiti per alleviare la miseria degli oltre 2 milioni di abitanti. Ma i torrenti di contanti son difficili da seguire, di sicuro nelle fogne a cielo aperto della Striscia, e – sostengono alcuni commentatori – sono stati usati anche per rafforzare la struttura militare, costruire i razzi che bersagliano in queste ore le città, scavare i tunnel dove sarebbero tenuti gli ostaggi.
Proprio questa intesa (mai diretta, il governo israeliano non dialoga ufficialmente con Hamas) è adesso contestata al primo ministro. Troppa la fretta di comprarsi la calma al sud tra i cicli periodici di violenza, troppo grande la svista nell’offrire sussistenza ai fondamentalisti e allo stesso tempo indebolire l’Autorità a Ramallah e il presidente Abu Mazen, l’unico riconosciuto anche dalla comunità internazionale a poter negoziare un accordo di pace sempre più lontano.