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 2023  ottobre 09 Lunedì calendario

Parla Luciano Ligabue

La paura. Il noi. Dio. Nel 1994 si chiedeva A che ora è la fine del mondo? Adesso prova a dare qualche risposta. Con meno durezza (e più indulgenza). Alla sua maniera. Ridendo, per esempio, come canta nell’ultimo brano che chiude Dedicato a noi, il quattordicesimo album della sua carriera ultra-trentennale: «E crolla il muro / su cui sbattevi / e hai visto cos’era? / soltanto un pensiero».
Quando non è sul palcoscenico, Luciano Ligabue è un antistar. Gli piace raccontare, spiegare, confidarsi. Quando ha rischiato di morire prima di nascere. Dell’infanzia tutta don Camillo e Peppone a Correggio. Di una madre indomita e un padre realista (che un giorno lo sorprese con un regalo inaspettato). Della crisi del 1999 (poi scopriremo perché proprio quell’anno). Della sua fede onesta e tormentata.
Nel tour che comincia il 9 ottobre all’Arena di Verona e lo porterà per tutto l’autunno in giro nei Palasport italiani, c’è al suo fianco anche il figlio Lorenzo Lenny, batterista, avuto nel 1998 dalla prima moglie Donatella Messori.
Pubblicare un album non è demodé? Oggi la musica è tutta mordi e fuggi.
«Nella musica è cambiato tutto. Il modo di scriverla, di produrla, di farla circolare, di ascoltarla. Ogni giorno escono circa centomila canzoni. Anch’io, da ascoltatore, sono disorientato davanti alle piattaforme. Non è cambiato, però, il mio bisogno di fare musica in un certo modo. Un album è un percorso, come scrivere un libro. Solo così riesco a dire qualcosa che non riesco a tenere per me in un certo periodo della vita».
Adesso che cosa non riesce a tenere per sé?
«Fatico ad accettare il momento che stiamo vivendo. Di inizi di decenni ne ho visti sei, ho una certa esperienza. Nessuno infame e orribile come questo. Non c’è tregua. La pandemia, la guerra in Ucraina, le catastrofi sempre più frequenti innescate dai cambiamenti climatici, l’estate terribile della cronaca con l’aumento dei femminicidi. Sento molti psicologi che hanno in cura i ragazzi della Generazione Z (i nati tra il 1997 e il 2010, ndr) che mi dicono che molti di loro non riescono più a immaginare un futuro. Pazzesco».
Come se ne esce?
«Non ho leve politiche per cambiare tutto questo».
Ha le canzoni, però.
«Sono il mio modo di dire che non mi rassegno, che all’isolamento bisogna rispondere abbracciando l’altro, anche se è faticoso. Che si può stare insieme, nonostante le differenze. Ho sempre avuto questo bisogno di appartenenza che ora mi sembra più urgente».
Nel 1990, agli esordi della carriera, cantava “Non è tempo per noi / e forse non lo sarà mai”. Adesso il suo ultimo album s’intitola Dedicato a noi. Si è intenerito con l’età?
«Credo di sì (ride, ndr). All’epoca mi sentivo dalla parte di chi si sentiva fuori moda e fuori posto da un conformismo dettato da chissà chi. In questo album riconosco che quei noi di molti anni fa meritano una piccola ricompensa, magari, semplicemente, il riconoscersi reciprocamente, lo stare insieme, il condividere un pezzo di strada».
Nel brano Niente piano B canti che «è sempre una questione di prendere o lasciare / e di sapere ancora bene / da che parte stare». Quale?
«Quella degli ultimi. La mia educazione è un miscuglio di comunismo e cristianesimo. Camillo e don Peppone. Negli anni Settanta eravamo persuasi che certi valori, come quella di ridurre il divario tra ricchi e poveri, sarebbero stati perseguiti. Oggi non gliene frega niente a nessuno. Anziché ridursi, il divario s’è ampliato. E nel futuro si amplierà sempre di più. Nessuno avrà la possibilità di cavarsela da solo. Non è solo questione di equità. Oggi manca anche la pietas».
"Chissà se Dio si sente solo, se gli bastiamo, se gli manchiamo”, si chiede in un altro brano significativo dell’album.
«È una domanda che rilancio a chi, come me, ha voglia di farsela. Se Dio è nei cieli e ci sta guardando sarà atterrito dallo spettacolo non troppo edificante che stiamo offrendo. Se si sente solo è perché lo stiamo abbandonando. Non è una questione di fede ma di etica, di comportamento. Poi c’è un’altra possibilità: rassegnarsi. La canzone l’ho scritta anche dopo l’esperienza della pandemia».




Luciano Ligabue, 63 anni, durante il concerto del 5 luglio scorso a San Siro (Ansa)


In che senso?
«Faccio un elenco di paure. L’isolamento le ha aumentate. Ci sentiamo più soli. Dio è un antidoto, spinge alla fiducia, alla speranza».
In una canzone che ha scritto diceva che sarebbe venuto il giorno in cui avresti risolto il dubbio se esisteva o no. L’ha sciolto?
«Sono stato praticante, ora non più ma non per questo ho smesso di essere cattolico. Ho sempre avuto un forte bisogno spirituale. In Hai un momento Dio?, che poteva apparire ironica o stravagante, volevo umanizzare Dio, mettermi in dialogo con lui, immaginarlo addirittura a bere qualcosa in un bar. Ho anche un mio modo di pregare».
Qual è?
«Dicendo grazie. Per me è una forma di preghiera. La gratitudine mi fa bene e quindi la consiglio a tutti. Spesso ce ne dimentichiamo e diamo per scontate molte cose: la salute, il lavoro, le persone che ci vogliono bene. L’anno scorso ci ho scritto pure una canzone: Non cambierei questa vita per nessun’altra. A suo modo, una preghiera».
Il 23 giugno era con i duecento artisti italiani che hanno incontrato papa Francesco nella Cappella Sistina.
«Quando ho ricevuto l’invito ho fatto di tutto per non mancare. Il Papa incarna molti di quei valori in cui credo. Ho conservato la copia del suo discorso. Mi hanno colpito due cose: vedere tante persone di sinistra entusiaste davanti al Pontefice e incrociare lo sguardo di Michela Murgia (morta il 10 agosto scorso, ndr) che dopo aver strinto la mano al Papa era emozionatissima. Mi ha guardato e si è messo la mano sul cuore. È l’ultimo ricordo che conservo di lei e lo custodisco con grande affetto».
Che infanzia è stata la sua?
«Bellissima con due genitori splendidi e un inizio un po’ travagliato (ride, ndr). Durante il parto, il cordone ombelicale mi si era attorcigliato attorno alla fronte e m’impediva di uscire. Sono nato cianotico e, ironia del caso, i miei amici da ragazzo mi chiamavano “ciano” senza sapere la storia. A un anno e mezzo ho rischiato grosso per una peritonite e mi sono salvato grazie a un medico che aveva capito tutto vedendomi in farmacia con mia madre. A cinque anni, dopo un intervento di routine alle tonsille, stavo per morire soffocato da un’emorragia».
Perché ad un certo punto della carriera voleva smettere.
«Alla fine del 1999. Ero reduce da una serie di successi: gli album Buon compleanno Elvis e Su e giù dal palco e il film Radiofreccia. Non riuscivo a gestire la pressione. Forse era anche una mia paranoia. In un primo momento ho pensato di mollare. Poi mi sono chiesto se ero disposto a rinunciare a tutto, soprattutto ai concerti. La risposta era no, e sono andato avanti».
Buon compleanno Elvis fu un grande successo.
«Quell’anno, il 1995, Elvis Presley avrebbe compiuto 60 anni. È morto a 42 per un eccesso di tutto: di cibo, di farmaci, di solitudine. Non riusciva a colmare il vuoto che aveva. Era un re, anzi il re del XX secolo. Eppure muore sulla tazza del water non riuscendo più neanche ad espletare le sue funzioni fisiologiche. Un’immagine crudele che, più di tanti discorsi, spiega benissimo le zone d’ombra che s’annidano dietro al successo e alla fama sulla quale iniziavo a riflettere anch’io, anche se non mi sono mai sognato di paragonarmi a Elvis, come ha detto malignamente qualcuno».
Una vita da mediano l’ha scritta in questo periodo.
«Sì, ero al culmine della popolarità e mi sentivo in colpa. Quella canzone era come porgere le scuse. Un po’ esagerata, forse, perché io mi sento più fantasista che mediano (ride, ndr)».




Come nasce la sua passione per la musica?
«Mio padre Giovanni gestiva alcune balere ed era un grande amante del liscio. Era un tipo tosto che di fronte ai musicisti entrava in soggezione. Poi, oltre all’artista, cominciò a conoscere il dietro le quinte: le macchie sui gilè sgargianti, la fatica dei suonatori a cottimo, le discussioni sul cachet. All’esaltazione iniziale era subentrato un certo disincanto. Quando la domenica a pranzo usciva il discorso lui, ripiegato sull’immancabile piatto di cappelletti preparato da mamma, era caustico: “I musicisti sono tutti morti di fame”. Sembrava un pensiero detto a voce alta ma in realtà era il suo modo per dirmi di lasciar perdere la musica e trovarmi un lavoro serio. Poi, a sorpresa, un giorno del 1975, per i miei 15 anni, arriva a casa con un regalo inaspettato e non richiesto: una chitarra acustica».
La sua reazione?
«Restai sorpreso, non me l’aspettavo. E iniziai a strimpellare. Eravamo nel boom dei grandi cantautori italiani e delle radio libere. Ascoltavo De André, Venditti, De Gregori, Battisti e volevo in qualche modo imitarli. Ho preso la chitarra e ho provato a scrivere e suonare qualcosa scimmiottando questi grandi anche se le canzoni non mi somigliavano».
La prima canzone che ha sentito veramente sua?
«Sogni di rock’ n’ roll, 1997, in cui raccontavo il mio sabato sera. A ispirarla fu un grande scrittore, mio compaesano: Pier Vittorio Tondelli».
Come lo ha scoperto?
«Era il 1980, uno degli anni più brutti della mia vita. Lessi sul giornale che uno di Correggio aveva pubblicato un romanzo (Altri libertini, ndr) che era stato subito sequestrato da un procuratore per oscenità e oltraggio alla pubblica morale. La cosa mi incuriosì molto perché Vicky, come lo chiamavano gli amici, nel mio paese era un cattolico tutto d’un pezzo, andava in chiesa, scriveva per i giornali delle ACLI e dell’Azione Cattolica. Alla prima licenza, perché stavo facendo il servizio militare a Belluno, andai dall’edicolante di Correggio e con un paio di occhiate, senza parlare troppo, gli chiesi se poteva passarmi sottobanco il libro “proibito”. Lo lessi e rimasi folgorato per la scrittura ultramoderna, quasi ipnotica. Ritrovai i miei riti, raccontati con una vitalità straordinaria. I personaggi degli anni Settanta che avevo conosciuto anch’io. Divenne per me una grande fonte d’ispirazione».
Nel 2021 l’ha ricordato insieme a padre Antonio Spadaro (ex direttore di Civiltà Cattolica, ndr) in occasione dei trent’anni della morte.
«È stata una serata bellissima. Il papà di Vicky si è commosso fino alle lacrime».
Ha rimpianti?
«No».