il Giornale, 8 ottobre 2023
Storia delle Ong
Sergio Marelli si definisce un «innamorato della cooperazione». Impegnato per quarant’anni come volontario in tutto il mondo, dal 2000 al 2010 è stato il primo presidente dell’Aoi, l’Associazione delle ong italiane, e oggi tiene lezioni sulla storia delle organizzazioni non governative. Una lunga esperienza concentrata nel saggio Ong: una storia da raccontare. Dal volontariato alle multinazionali della solidarietà (Carocci). Partiamo dall’inizio. «La lunga storia delle ong risale a metà dell’Ottocento quando, durante le guerre d’indipendenza, in Italia nasce un primo movimento di volontari: le crocerossine, che vanno in soccorso delle vittime. È la prima forma organizzata di volontariato, che si protrarrà nel tempo proprio con la caratteristica di essere un comportamento in zona di conflitto a soccorso delle vittime, indipendentemente dalla loro nazionalità e appartenenza». È già una definizione? «Una parte di essa. Quella delle ong è una storia in cui esse assumono caratteristiche e peculiarità che si arricchiscono a mano a mano, grazie all’esperienza sul campo. La parola chiave è volontarietà: uno spirito umanitario, spontaneo, di soccorso alle vittime in una situazione di guerra. È così che nasce la prima organizzazione, la Croce Rossa». Siamo nel 1864. «Ecco una seconda caratteristica delle ong: il fatto di essere un movimento che, per anni, nasce e si sviluppa quasi esclusivamente nel mondo cattolico da noi e, più in generale, cristiano, a livello europeo. Alla fine della Prima guerra mondiale, è un pacifista cristiano, Pierre Cérésole, a convocare il primo campo di lavoro per la ricostruzione di un villaggio al confine franco-tedesco. E qui emerge una terza caratteristica: l’internazionalità delle ong». La rete funziona? «Così bene che, nel 1920, nasce una prima forma di coordinamento fra i vari gruppi di volontari nati spontaneamente, il Ccsvi, un Comitato che si riunisce annualmente; da quel momento, le esperienze di questo genere si moltiplicano, a livello nazionale e internazionale». Di che cosa si occupano queste prime ong? «Intervengono in situazioni di difficoltà, in soccorso della povertà, della marginalità, in caso di catastrofi e di conflitti, sempre all’interno di questo spirito umanitario che è il tratto identitario fondamentale delle ong, anche oggi». E in Italia? «Nel 1933 nasce l’Ummi, l’Unione medico missionaria italiana: è la prima forma riconoscibile di una organizzazione di volontariato prettamente italiana, che nasce su iniziativa dell’Opera Don Calabria. Questo legame col mondo cattolico rimarrà forte per molti anni, fino al ’68». Ci sono delle svolte nella storia delle ong? «Una data fondamentale è il 1945. In parallelo alla fondazione dell’Onu in ambito istituzionale/governativo, a San Francisco si tiene la prima riunione mondiale delle organizzazioni di volontariato internazionale». Perché è così importante? «Perché ne sancisce l’autonomia – altra parola chiave – dalle azioni dei governi. Anche se non si chiamano ancora ong: per questo, in Italia bisognerà aspettare il 1979 e la legge numero 38, che riconosce le ong e, così, nasce anche l’acronimo. E, sempre dopo il ’45, l’azione delle ong inizia a spostarsi a fianco dello sviluppo e dell’emancipazione delle popolazioni impoverite del Sud del mondo. In situazioni, diciamo così, di ordinaria miseria e povertà, nasce l’esigenza di aiutare e cooperare con le popolazioni di questi Paesi. Anche qui, l’azione è affiancata a quella dei missionari». Economicamente come si reggono queste organizzazioni? «In quegli anni, nel nostro Paese, unicamente con forme di autofinanziamento, sia dal punto di vista della totale assenza di remunerazione per chi parte e presta servizio, sia per l’organizzazione del lavoro e dell’azione qui». E poi? «Cambia tutto. A mio parere, da quando John Fitzgerald Kennedy lancia i Peace Corps: per la prima volta, un governo decide di creare una organizzazione di volontariato internazionale». Non è una contraddizione? «Ha una natura diversa. E apre una strada che avrà un successo evidente in Usa e in Canada e nel Nord Europa, Irlanda, Norvegia, Danimarca, Regno Unito, Germania...». Per quanto riguarda i soldi? «I governi, a cui queste organizzazioni sono legate, iniziano a finanziare il volontariato internazionale e le organizzazioni stesse». E in Italia? «La prima legge della Repubblica a riconoscere il volontariato internazionale e la sua autonomia e alterità rispetto al governo è del 1966: la legge Pedini, dal nome del senatore Dc che la propose, che dà la possibilità di fare un servizio alternativo a quello di leva, svolgendo il volontariato internazionale in un Paese povero del Sud del mondo per due anni». E i soldi? «In Italia bisogna aspettare il 1971. Fino ad allora è tutto privato, anche se l’affiliazione al mondo ecclesiastico aiuta molto. Ma va chiarita una cosa: l’associazione tra volontariato e gratis è una stortura. Il volontariato è una scelta, un motivo di vita; la questione economica riguarda la relazione tra la persona e l’organizzazione. E la legge 1222 del ’71 inizia a dare una remunerazione alle persone che decidono di fare questa scelta». In questo percorso si delinea una professionalizzazione? «Sì. Sul piano culturale c’è una evoluzione, che si riassume nel superamento dell’assistenzialismo: l’idea, sulla base dell’esperienza, che la professionalità, ovvero l’intervento elaborato e progettato, sia quello che serve per rimuovere le cause della povertà. Si passa da un intervento emergenziale a uno strutturato: è la cultura del fare progetti, che procede in parallelo all’aspetto giuridico e vede una evoluzione nel concetto di cooperazione». In che cosa si traduce? «Nel ’79 è approvata la legge 38, che riconosce anche la possibilità che lo Stato finanzi, a certe condizioni, i progetti. Queste leggi sono incardinate al ministero degli Esteri». Per quanto riguarda le remunerazioni, di che cifre parliamo? «All’epoca, un medico o un ingegnere che partisse per un progetto di almeno due anni in un Paese del Sud del mondo poteva prendere 300-350mila lire al mese; oggi il massimale stabilito dal ministero è di 1000-1500 euro al mese». Se si ricevono soldi statali non decade il «non governativo»? «Non è la questione economica a essere discriminante, bensì l’autonomia dell’associazione e quella progettuale. La proposta viene dall’ong, poi spetta all’istituzione valutarla e decidere se dare un contributo finanziario». Tutto questo porta a un aumento del potere delle ong? «Questo potere è dato più dal radicamento nella società civile: esistono oltre 400 ong in Italia oggi, più di 35mila nel mondo. Sono in maggioranza libere associazioni private e, in Italia, impiegano circa tremila persone l’anno. Solo i Peace Corps inviano diecimila volontari ogni anno». E com’è che, dal Sud del mondo, oggi arrivano soprattutto nel Mediterraneo a salvare migranti? «Sono l’informazione, e la mediatizzazione... Le ong vanno avanti a fare interventi nelle situazioni di povertà e di miseria ordinaria e in scenari di guerra. Ci sono oltre 50 conflitti nel mondo e, anche se soltanto un paio sono ricordati quotidianamente, le ong sono lì, in tutti. Ma si parla prevalentemente di 3-4 navi che, nel Mediterraneo, soccorrono anche i migranti dei barconi. Le ong vanno avanti a fare il loro, purtroppo lontano dall’attenzione dei media». Forse questa attenzione non parte solo dai media. Non è che ad alcuni convenga? «Non ho dubbi a darle ragione. Con la legge di cooperazione dell’87, in Italia sono ammesse e riconosciute anche le ong di origine straniera: arrivano delle filiali di grandi ong estere, che iniziano a operare e ricevere contributi pubblici e che, alle spalle, hanno risorse ingenti. E, così, acquisiscono un ruolo prevalente, e sovraesposto, rispetto a quelle nazionali, nella mediatizzazione del loro operato. Ma le altre ong fanno quello che han sempre fatto, con l’obiettivo di ottenere condizioni di giustizia e di vita migliori per le popolazioni del Sud del mondo». L’attività di soccorso in mare rientra nell’obiettivo? «Sì, appieno. È la Croce Rossa che soccorre le vittime nella guerra d’indipendenza, quello stesso spirito umanitario». Le ong sono anche un affare? «Essere una ong non è un vaccino: non rende immuni da tutti i fenomeni... Ci sono stati casi di affarismo, alcuni – pochi – emersi anche durante Mani pulite. Ma non si può generalizzare, rispetto a una azione meritoria che dura da più di un secolo. Certo che il carrierismo nelle ong, o meglio in alcune di esse, e che somiglia a quello nel profit, porta le organizzazioni a correre un alto rischio». Perché? «Il carrierismo stride con lo spirito di gratuità, che non è lavorare gratis, ma è capire che bisogna giocarsi qualcosa, in prima persona. Questo carrierismo, che si è insinuato in alcune organizzazioni, aumenta il rischio, e crea anche la percezione delle ong come affari o affarismi. Così come la confusione fra ong e organismi delle Nazioni unite». Non aiuta? «Se i funzionari dell’Unicef o della Fao guadagnano dieci volte un volontario, questo non è imputabile alle ong...». Le ong che hanno segnato la storia in Italia? «Nel ’79, quando nasce la sigla ong, esistono già 80-90 organizzazioni. Una delle più anziane è il Cuamm, nata negli anni ’50 e tuttora esistente, ora legata a Medici con l’Africa». E oggi? «Dal punto di vista del numero di volontari inviati va citata la Lvia; e poi Intersos, la prima organizzazione italiana occupata unicamente in situazioni di emergenza». Come sono i rapporti fra ong e governo, inteso come istituzione? «La non-governatività è una autonomia: non bisogna fare quello che dice il governo, altrimenti le ong sarebbero istituzioni dello Stato, che fanno quello che dice lo Stato. E l’iniziativa privata è garantita dalla Costituzione. Poi spetta alle istituzioni decidere se sostenerla oppure no».