Corriere della Sera, 8 ottobre 2023
Biografia di Mohammed Diab al Masri, nome di battaglia Mohammed Deif
Lo chiamano il fantasma ma esiste e lo ha dimostrato in queste ore. Mohammed Diab al Masri, nome di battaglia Mohammed Deif, è l’artefice dell’assalto a Israele. L’«operazione Al Aqsa» è diretta da un uomo che restando nell’ombra ha trasformato i guerriglieri in una formazione temibile e in queste ore esorta gli arabi di Israele e degli Stati confinanti a prendere le armi.
Sulla cinquantina, il capo del braccio militare di Hamas è nato a Khan Younis, a Gaza, e nonostante le magre risorse della sua famiglia ha potuto studiare. Biologia, dicono. Ed ha trovato modo anche di dedicarsi, da giovane, al teatro interpretando il ruolo di Abu Khaled in un’opera intitolata «Il pagliaccio». Brevi parentesi dalla vera missione: quella di militante. È cresciuto sotto l’ala di Yehya Ayyash, l’ingegnere, il coordinatore degli attacchi suicidi a metà degli anni ’90, e quando il suo mentore è stato ucciso ha compiuto un passo dopo l’altro per sostituirlo. La sua prima specialità sono state le prese di ostaggi, azione ripetuta in queste ore su scala massiccia.
Successivamente si è dedicato alla costruzione dell’arsenale della fazione. Le Brigate Ezzedine al Qassam, la punta di lancia del movimento, sono passate dai kalashnikov ai droni e ai razzi. Il network ha importato materiale bellico attraverso i tunnel clandestini collegati al territorio egiziano, linfa vitale anche per merci civili. I fedayn hanno ingaggiato palestinesi all’estero che potessero assisterli, ne hanno coinvolti altri nella Striscia, hanno sfruttato l’appoggio dei radicali sciiti, Iran ed Hezbollah libanese. Un coordinamento costante sul piano militare e politico. I due alleati hanno fornito armi, materiale, coperture. Molta attenzione è stata dedicata alla realizzazione di bunker, postazioni sotterranee per ostacolare un’invasione o lanciare ordigni contro lo Stato ebraico. Al centro sempre il fantasma.
Sul palco
Ha trovato il tempo per dedicarsi da giovane al teatro interpretando «Il pagliaccio»
Israele non gli ha dato tregua. Gerusalemme, all’epoca di Arafat, ne aveva chiesto l’arresto e, per un certo periodo, era stato messo in una residenza sorvegliata dall’Autorità. Iniziativa del suo vicino di casa e conoscente, Mohamed Dalhan, per lungo tempo responsabile della sicurezza. Un soggiorno di pochi mesi che non ha interrotto la sua carriera diventando il «most wanted» degli gli israeliani. Che hanno provato a farlo fuori in ogni modo. Con ripetuti strike di elicotteri sulle vetture che lo trasportavano – 2001 e 2002 —, con infiltrati, con la complicità di chi poteva sapere dove fosse.
Le biografie citano sei-otto episodi di azioni mirate per ucciderlo, lui però è sempre scampato riportando ferite serie. C’è chi dice abbia perso un occhio e una mano o che cammini a fatica per le conseguenze di una scheggia. Altri ipotizzano danni maggiori ma nulla che abbia compromesso importanza e status.
Nell’agosto del 2014 hanno bombardato la sua abitazione, raid costato la vita ad una delle mogli e ad una figlia. Sono caduti anche alcuni dei suoi collaboratori, il numero due al Jabaari, gli esperti di droni, i procacciatori di materiale bellico assassinati dal Mossad negli Emirati, in Tunisia e Malaysia. Campagna senza confini simile alla vendetta contro Settembre Nero dopo l’eccidio di Monaco nel 1972. Successi tattici che non hanno inciso però sulle Ezzedine al Qassam, organizzate per sopravvivere ad una eventuale decapitazione dei vertici. Anni di conflitto lo hanno costretto a misure di sicurezza rigorose. Di lui gira solo una vecchia foto, niente telefono, solo corrieri e messaggi registrati postati sul web. Nel primo audio noto, nel 2003, prometteva agli avversari: «La vostra vita sarà un inferno». Vent’anni dopo lo ha dimostrato in modo brutale.