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 2023  ottobre 07 Sabato calendario

Gadda che parla di sé

Tra le tante promesse non mantenute fatte da Carlo Emilio Gadda agli editori spunta, nel 1953, un volume di «altri saggi abbastanza vivi, e già usciti in rivista» destinato all’Einaudi. La proposta si trascinò per un paio d’anni approdando a una sorta di indice. Intanto però Gadda aveva incontrato Livio Garzanti, disposto a finanziare il completamento del Pasticciaccio. Si consumò così l’ennesimo tradimento di cui fu artefice lo «scrittore-anticipista» (cioè perennemente a caccia di anticipi) e quel volume saggistico sarebbe stato dirottato verso l’editore milanese. Titolo I viaggi la morte, mese di pubblicazione ottobre 1958, circa un anno dopo il successo del Pasticciaccio. Un saggio che portava lo stesso titolo, ma con virgola tra i due sostantivi (I viaggi, la morte), era apparso nell’aprile 1927 in «Solaria». Si trattava di un ampio excursus su Charles Baudelaire e Arthur Rimbaud, con la famosa dicotomia tra scrittori «morali» e «fantastici»: nel novero di questi ultimi anche i simbolisti, che «più difficilmente possono farsi efficaci rappresentanti di una totalità morale» e che tendono a una sorta di dissoluzione etica, un «tragico nulla» in contrasto con i realisti di stampo lombardo.
Nel volume garzantiano, il saggio eponimo andrà a occupare la posizione numero 15 in un insieme di 24 testi elaborati nell’arco di un trentennio e selezionati dal «giovane torinese-siculo» Pietro Citati, redattore di Gadda e poi suo sparring partner, sodale, confidente, amico. Il lavoro di Mariarosa Bricchi, curatrice della nuova edizione Adelphi, lavoro consegnato a una ricca Nota al testo in obbedienza al format delle riproposte adelphiane, si articola su due livelli: da una parte ricostruisce la vicenda tortuosa dei singoli saggi scritti nel tempo delle riviste; dall’altra segue il laborioso allestimento del volume. Quel che emerge è il modo di lavorare di Gadda per revisioni progressive in più tempi, con approfondimenti che si producono grazie all’inserzione di blocchi per via di esempi e citazioni degli autori amati. Ma dalla genesi dei testi viene fuori anche quella rete di scambi e corrispondenze che era allora il mega-polmone capace di dare ossigeno alla letteratura, e persino a uno scrittore nevrotico difficile riservato (e «tira-tardi») come Gadda. Ci imbattiamo in numerosi periodici, non soltanto «Solaria», ma «Letteratura», «Paragone», «La Rassegna d’Italia», «Nuova Antologia», «La Ruota», «Il Mondo», «L’Illustrazione italiana», «Giovedì», «Poesia», «Botteghe Oscure». E incontriamo tanti di quei nomi da far girare la testa, che contribuirono alle diverse pubblicazioni sollecitandole, commentandole e/o curandole. Nomi noti e meno noti, spesso dimenticati, che entrano in gioco a vario titolo, scrittori, poeti, critici, studiosi, storici, direttori, giornalisti, editori, operatori. La lista, da Piero Bigongiari al vecchio Francesco Flora a Giorgio Bassani all’amico Alessandro Bonsanti fino ai giovanissimi Alberto Arbasino e Goffredo Parise, è interminabile. Tutte le note ai testi della serie adelphiana, ma questa ancor più delle altre, danno l’idea di un lavoro culturale attivo e brulicante di idee e di iniziative collettive. Colpisce il fitto «garbuglio» di rapporti al centro del quale si trovò coinvolto quel sedicente «inetto a cicalare con brio», che confessa di muoversi tra i suoi simili con fatica e titubanza, «da dilettante, da praticone, da treccone». Un uomo che a 54 anni afferma di rivivere davanti a chiunque «gli attimi di uno scolaro all’esame».

L’«ordito combinatorio del destino» che diventa poetica d’autore si presenta in primo luogo come pratica di vita quotidiana, oltre che «fondamento etico», come fa notare Bricchi a proposito dello scritto del ’47, Fatto personale... o quasi. È l’autoritratto commissionato da Vallecchi: un profilo che parte dalla nomea di «macaronico», etichetta che Gadda, artefice Gianfranco Contini, sente gravare eccessivamente su di sé. Tant’è che, dopo un divertissement attorno al «macarone (...) servito a tavola», a sua discolpa precisa che il «pastiche», la «tumescenza barocca», il grottesco in realtà non sono un tratto gaddiano ma «albergano nelle cose». In un’intervista radiofonica a sé stesso risalente al 1950, lo scrittore rivede il suo percorso inizialmente ispirato a «un movente lirico e descrittivo», poi suggerito dalla pulsione filosofico-meditativa per approdare a una prevalenza di «puro narrare». Con il riconoscimento di un punto debole: «Manco di appetito, manco di cupidità di conoscere i fatti altrui, quella che tre grandi “pettegoli” possedettero in misura eminente: Dante, Saint-Simon, Balzac».
Si potrebbe rinfacciare all’Ingegnere un’autodefinizione di segno opposto, citata da Bricchi: «Fatto inusuale per i nostri giorni, Carlo Emilio Gadda è uno scrittore che “si documenta”: interroga filologi, brigadieri, sarte, trippai, oculisti, agronomi». Più pettegolo di così… Non deve apparire strano che questo libro di «lavorucci» saggistici, che Gadda preferisce definire alla francese Entretiens (nel risvolto di copertina originario), sia fittamente intessuto di autobiografia, come avverte subito Bricchi. «Lavorucci» disparati e dispersi dai modi e registri mutevoli, che vanno dall’argomentazione filosofica alla recensione, dal commento sulla propria poetica alla monografia, al panorama di ampio respiro, sempre in un misto di ardui ermetismi e di fulminee puntate ironiche. Fatto sta che se l’io è per Gadda il più «lurido» dei pronomi, in realtà lo si trova annidato ovunque, persino negli entretiens più in apparenza settoriali. Di un «indiretto, segreto, denso autoritratto», del resto, parlava già Clelia Martignoni nella nota all’edizione Isella 1991.
Sia che tratti del rapporto tra tecniche e belle lettere, con passaggi memorabili in cui si valorizza il contributo di tutti all’espressione letteraria (ma per coglierlo non bisogna essere pettegoli?): «Gli operatori ed elaboratori del materiale estetico, nel chiuso de’ singoli ambienti, sono un po’ tutti, tutte le respiranti foglie del faggio, le fibre innumeri della collettività: agricoltori, avvocati, operai, preti, ingegneri, ladri, puttane, maestri, nottambuli, monache, bancarottieri, marinai, madri, ex-amanti, marchese, politicanti, vecchi danarosi, fattucchiere, malati, notai, soldati». Sia che tratti di psicanalisi nel pieno della sua stagione freudiana con annesso riconoscimento di una propria «carica narcissica» (anni non a caso coincidenti con l’elaborazione di Eros e Priapo); sia che tratti di fonetica dialettale (la riluttanza del lombardo all’accento «dàttilo»); sia che si imbarchi in simil-recensioni (l’Agostino di Alberto Moravia, l’opera di Stefan Zweig, nuove edizioni degli amati François Villon e Gioachino Belli), Gadda lascia sempre, volente o nolente, visibili tracce, per lo più dolorose, di sé. E se da una parte in anni tardi ricordava I viaggi la morte come un libro che si era «divertito a scrivere», dall’altra all’amica Lucia Rodocanachi aveva annunciato l’uscita del libro prendendone le distanze: «Nel frattempo è uscito un altro mio volume (Saggi) ma questo non lo manderei volentieri: ivi parlo troppo di me, dei casi miei (...). La prima parte è, francamente, intollerabile».