il Giornale, 7 ottobre 2023
Il ragioniere che si aggira tra di noi da cinquant’anni
L’impiegato più sfortunato d’Italia, Ugo Fantozzi, è una creazione della finzione prima letteraria, poi filmica. Frutto della fantasia romanzesca di Paolo Villaggio, Fantozzi, in seguito alla sua trasposizione sulla pellicola cinematografica, è diventato una figura emblematica al cinema e alla fine un’icona social-pop.
In realtà il ragioniere si aggira tra di noi da cinquant’anni, esattamente dall’agosto del 1971, anno in cui il libro che raccoglieva le avventure di Fantozzi fu pubblicato da Rizzoli. In un momento in cui era proibito ridere delle cose sacre, con Fantozzi era venuto il momento di mettere in discussione le ideologie intoccabili, compresa quella marxista, partendo da un’embrionale ribellione contro il sistema in chiave grottesca assurda e dissacrante.
La figura descritta da Villaggio (al quale la Rai dedicherà il film tv Com’è umano lui le cui riprese sono iniziate l’altro ieri) era la persona comune per antonomasia, l’uomo vinto e sconfitto dall’avvento della civiltà industriale moderna che tuttavia si prendeva gioco dei suoi stessi carnefici, restando pur sempre il vinto per antonomasia. Fantozzi era diventato sulla carta, e poi sarà al cinema, la rappresentazione di chi è sconfitto dalla vita ma è fiero di esserlo, e ha finito per diventare l’idolo naturale di un’ampia fascia d’impiegati sfruttati e non abbienti che, in un periodo di austerity improvvisa, rivendicavano un presunto diritto alla ricchezza innanzi al padronato e, impegnandosi contro il lavoro, avevano sviluppato un istinto «non lavorativo» irrecuperabile.
Sotto forma di libro, Fantozzi diventò un best-seller: alla Rizzoli mai avrebbero sospettato che il ragioniere sarebbe diventato un idolo delle masse popolari. Al cinema esplose la natura di Fantozzi, anti-eroe parente stretto di Paperino, uomo di gomma capace di conquistare gli spettatori che, sin dal primo film, si riconobbero nel suo ruolo di emarginato e si immedesimarono nei panni di un infelice omino qualunque che, quasi in anticipo sui tempi, si era schierato contro il consumismo sfrenato. Con le sue paradossali e fumettistiche vicende, il personaggio ideato da Villaggio riecheggiava la figura dell’antico Buffone, o meglio dell’unico Re del buffo che rimane dopo il mitico Totò.
Grazie al lavoro che Villaggio aveva svolto come caposervizio presso la segreteria generale della Cosider, con l’incarico di organizzatore di eventi e di celebrazioni aziendali, conosceva tic e paranoie dei membri eletti della classe dirigente. Per lui quell’esperienza fu una sorta di palestra per la formazione anti-intellettuale e antiborghese di Fantozzi: «Non si faceva un caz... Meraviglia assoluta. Una gara a chi produceva di meno. C’era gente, durante l’anno, che si chiudeva per ore nel cesso a leggere La Gazzetta dello Sport. In agosto, un caldo ripugnante, alcuni di noi fuggivano per i cornicioni, andando al mare. L’archivio era il nostro dormitorio. Impiegati che si pigiamavano. L’archivista Poggio aveva la funzione del cane da guardia. Tutti dormivano: non per stanchezza ma per noia».
E si mormorava che Villaggio avesse ottenuto il posto alla Cosider grazie alla raccomandazione di un dirigente che gli aveva offerto un passaggio in macchina a Genova: a fine corsa, costui si volle così scusare per avergli involontariamente schiacciato il dito della mano destra chiudendo la portiera dell’automobile.
Nei libri come al cinema, Fantozzi si mette in mostra in quanto Essere atipico dotato di una natura da antieroe, da grande perditore capace di sopportare qualsiasi umiliazione, che non si spezza ma si piega. Alla radice di quest’esistenza tragicomica risiede il fatto che Fantozzi non è poi così irreale, anzi, il suo mondo è il nostro, o meglio, è la nostra rappresentazione iperbolica del mondo in cui vive un certo «Fantocci», chiamato così perché «fatto di stracci», o anche «Pupazzi», come viene apostrofato dai superiori della Megaditta in cui lavora e con i quali si mostra servile fino ai limiti dell’autoumiliazione. Villaggio affermò che Fantozzi faceva ridere perché aveva tutti contro, perché era la perfetta vittima sacrificale di una dittatura più subdola di quella fascista: quella del cosiddetto pensiero unico e della cultura consumistica, e piaceva a tutti perché dava «la possibilità ai topi che stanno in platea di sentirsi sollevati: c’era un topo che stava peggio di loro». Per questo Fantozzi è sì un personaggio comico ma non è una maschera immobile: è grottesco, amaro, patetico, perfino tragico nell’accettare di essere paragonato a un topo di fogna.
Il Ragionier Ugo Fantozzi esiste davvero perché ogni italiano è un po’ fantozziano, e ogni italiano si può riconoscere in lui, come può ritrovare nella sua figura una parte della propria vita, del proprio lato perdente. Così, d’altro canto, ridere con Fantozzi diventa un’occasione per ridere di noi stessi, delle nostre angosce e delle nostre frustrazioni quotidiane. E ammettere di essere un po’ Fantozzi non è poi così grave: il ragioniere perdente ma indistruttibile altro non è se non la concretizzazione delle nostre sconfitte quotidiane, anche di quelle che teniamo nascoste prima di tutto a noi stessi.