La Lettura, 7 ottobre 2023
Rapporto dalla Nuova Caledonia
In una intervista concessa a Giuseppe Sarcina su «la Lettura» #613 del 27 agosto, l’antropologo francese Jean-Loup Amselle sosteneva che, con il colpo di Stato in Niger, è finita l’epoca della Françafrique. È una seconda fine dell’impero francese dopo l’epoca delle indipendenze nella seconda metà del secolo scorso. C’è dunque o meglio c’è stata una Françafrique, un insieme di Paesi africani sì indipendenti formalmente, ma fortemente condizionati dalle politiche monetarie, finanziarie, estrattive e militari francesi. Accanto a questa però è bene non dimenticarsi che esiste ugualmente una Françocéanie, una Francia (e un’Europa) nell’Oceano Pacifico.
Qui a Nouméa, capoluogo della Nuova Caledonia, una delle tre Collettività d’Oltremare francese del Pacifico, insieme alla Polinesia francese e al più piccolo territorio di Wallis e Futuna, sugli edifici pubblici sventolano tre bandiere. Quella tricolore, quella europea e quella di Kanaky che rappresenta il popolo autoctono dei kanak e le sue richieste di riconoscimento di peuple prémier, già presente cioè al momento dell’annessione alla Francia nel 1853. Sfugge ai più, e non solo in Italia, il fatto che i ma’hoi di Tahiti, i henua enata delle Marchesi, i polinesiani di Wallis e Futuna e i kanak della Nuova Caledonia sono a tutti gli effetti cittadini francesi ed europei. Giova sempre ricordarlo a un’Europa preoccupata di difendersi da scafisti e migranti, assai meno disponibile a spiegare perché l’«arcipelago» europeo continui a estendersi sulle isole dei Caraibi olandesi e francesi, sull’immenso territorio amazzonico della Guyana francese, sulle isole di Mayotte e la Réunion nell’Oceano indiano fino ai minuscoli atolli delle Tuamotu.
Una risposta l’ha data Emmanuel Macron nel suo discorso sulla piazza della Pace, nel centro di Nouméa, il mese scorso. La Francia è un baluardo di difesa dell’Occidente e della democrazia nel Pacifico dalle ambizioni cinesi (e russe), è un saldo alleato di Giappone, Australia e Usa. Localmente però il suo discorso ha ottenuto molte più critiche che consensi. Anche perché la retorica è tutto sommato la stessa con cui, negli anni Cinquanta, Charles de Gaulle lanciò la campagna nucleare che tanti disastri ecologici ha prodotto nel Sud Pacifico.
La decolonizzazione, tuttavia, è un problema molto complesso. È un po’ come ricostruire un uovo dopo averlo sbattuto nell’omelette. Le ricette facili non esistono e, come dimostra la storia di molti Paesi africani citati da Amselle, l’indipendenza politica non è affatto una garanzia. Anzi. Se guardiamo alla storia dei Paesi e territori che sono rimasti nel cono d’ombra dell’Oltremare francese, britannico, spagnolo, portoghese e olandese, essi godono oggi, complessivamente, di migliori condizioni economiche dei loro vicini di casa indipendenti. In alcuni casi le società autoctone negli Oltremare sono state riconosciute e godono di alcune tutele giuridiche ed economiche. Non è un quadro tutto positivo certo: in Nuova Caledonia per esempio la «linea del colore» (che spesso è anche una linea di genere) rimane molto forte. A lavorare a bordo strada negli assolati pomeriggi della primavera australe sono soprattutto volti scuri, così come alle casse dei supermercati o nelle sontuose ville con piscina dei ricchi. I kanak sono poco numerosi nelle università (con qualche eccezione certo), negli uffici, negli studi di avvocati e ingegneri. Il tasso di insuccesso scolastico in quella parte di popolazione che si definisce kanak e autoctona è altissimo, la speranza di vita assai più bassa di quella dei «bianchi».
La decolonizzazione delle menti e delle istituzioni, tuttavia, è un fenomeno complesso. Prendiamo la questione della moneta, per esempio. Se il franco africano, il Cfa (una sigla che un tempo significava Colonie francesi d’Africa), è divenuto un simbolo della «francesità» ed è oggi un bersaglio della polemica anti-coloniale, ben diversa è la situazione dell’omologo franco del Pacifico (Cfp, sigla anche questa che significava un tempo Colonie francesi del Pacifico). In Nuova Caledonia si è temuto che, come è avvenuto nei dipartimenti francesi come la Martinica o la Guadalupa, venisse adottato l’euro. Il Franco del Pacifico non sarà certo il simbolo della decolonizzazione, ma non è neppure il diavolo, tanto che compare in tutti gli scambi consuetudinari kanak dove le banconote sono state risemantizzate come simbolo della circolazione della parola.
Quello che fa problema sono alcune dinamiche introdotte dalla colonizzazione che si sono innestate come un cancro sul tessuto socio-politico locale. Una di queste è l’opposizione centro/periferia. In Polinesia francese per esempio le isole Marchesi si sentono oggi una periferia di Tahiti e lottano contro il monopolio culturale dell’isola più nota del Pacifico. Le province Nord e Isole della Nuova Caledonia contestano il primato economico e dei servizi della Provincia Sud. La piccola isola di Futuna contesta il primato di Wallis, che conta sull’aeroporto internazionale, su un buon presidio medico, sulle scuole superiori e su un grande porto.
Quando si parla di decolonizzazione e di indipendenza è sempre bene chiedersi di chi e da chi. Il rischio di cadere dalla padella alla brace o di combinare guai seri irrigidendo identità e appartenenze etniche è ben evidente, come mette in luce Amselle a proposito dell’Africa. Ritorniamo in Nuova Caledonia. Dall’annessione in poi qui sono arrivate comunità di lavoratori dall’Asia (Giava, Tonchino, Giappone), quasi ventimila bagnard, i condannati ai lavori forzati, dalla Francia e da altri Paesi europei (tra cui centinaia di italiani), migliaia di immigrati da Wallis e Futuna, Vanuatu e altri Paesi del Pacifico e così via. I discendenti di queste comunità si sono radicati, sono diventati indigeni di questo Paese anche se arrivati dopo i kanak. Anche loro reclamano il diritto di viverci, tanto più che un forte meticciato lega ormai queste comunità fin dentro le mura domestiche. Oggi gli abitanti della Nuova Caledonia che non si dichiarano kanak sono più numerosi dei kanak stessi. L’indipendenza dalla Francia, reclamata da ampi settori della società civile, approderebbe a quale tipo di società? Chi sarebbero i leader del futuro Stato? Sarebbero disposti a un lavoro di lotta contro le enormi diseguaglianze che esistono nel Paese?
Secondo alcuni osservatori, l’indipendenza porrebbe fine alla divisione etnica tra kanak e non kanak e darebbe vita a uno scacchiere politico basato piuttosto sulle classi e sul reddito che sull’appartenenza culturale. È possibile, ma rimane non meno forte la richiesta kanak di essere riconosciuti anche in futuro come popolo «primo», con diritti particolari sulle terre e sulla rappresentanza politica. Attualmente esiste un Sénat coutumier che raccoglie i rappresentanti delle varie aree linguistiche e culturali kanak, ai quali è ugualmente riconosciuto un diritto consuetudinario particolare. La decolonizzazione è una faccenda complessa che, spesso, mette radicalmente in discussione il principio cardine di ogni Stato nazione: la sovranità unica. Molti popoli indigeni colonizzati come i kanak non cessano di chiedere indipendenza e decolonizzazione, ma spesso le loro rivendicazioni vanno più nella direzione di sovranità condivise e molteplici e di un chiaro pluralismo giuridico che in quella di una sovranità unica e granitica.