La Lettura, 7 ottobre 2023
Con Bret Easton Ellis
C’è attesa, ma anche trepidazione, alla prima uscita europea di Bret Easton Ellis e del suo nuovo romanzo Le schegge, alla Maison de la Poesie di Parigi. È il primo romanzo in 13 anni dell’autore che ha segnato con maggiore forza il passaggio dagli anni Ottanta ai Novanta, e l’attesa e la trepidazione si mischiano alla speranza. Sì, perché «BEE» lo avevamo amato da subito, talento precoce, freddo e spietato, con i suoi primi romanzi Meno di zero e Le regole dell’attrazione; lo avevamo letto con ammirazione crescente mentre, forte di una prosa sempre più raffinata, risaliva il nervo della cultura yuppie fino alla follia più estrema, con American Psycho; lo avevamo seguito con fiducia ricambiata in Glamorama, e in fondo lo avevamo apprezzato anche quando cercava nuove strade, con Lunar Park o il meno riuscito Imperial Bedrooms. Certo, con la narrativa americana che nei tardi anni Novanta aveva già eretto nuovi idoli, cominciava a sorgere il sospetto che Ellis non brillasse più come un tempo, e quando poi, dopo un lungo periodo di silenzio, se ne uscì con il poco felice saggio Bianco, lo avevamo accettato come astro ormai al tramonto. Ci sbagliavamo. E un po’ avevamo voglia di sbagliarci: il pubblico alla Maison de la Poesie è numeroso, il teatro è pieno in tutti gli ordini, c’è una lunghissima lista d’attesa e molti rimarranno fuori.
«Speriamo in bene», dice un ragazzo nel foyer, che tiene tra le mani la copia ancora intonsa di Les éclats, la versione francese delle Schegge pubblicata a marzo da Laffont. «Quando un autore è abbastanza grande, non finisce mai veramente», replica una signora in sala.
Tratto da un podcastEllis sale sul palco in felpa nera col cappuccio, jeans e scarpe da tennis, un look più da regista che da scrittore, e del resto negli ultimi anni ha messo da parte la narrativa per darsi al cinema e alla tv, scrivendo film per registi come Gregor Jordan, Paul Schrader e Derick Martini, e dirigendo anche una serie, The Deleted. Al cinema, alla tv, e anche ai podcast. In effetti Le schegge è stato scritto inizialmente per essere letto a puntate nel suo podcast, come un feuilleton contemporaneo, e anche questo non prometteva benissimo (ma, di nuovo, ci sbagliavamo), così come non promette bene l’attacco della presentazione, con la relatrice che, partendo dal podcast e dagli ospiti invitati negli anni, gli chiede com’è Kanye West. Lui quasi si risente, ma come, sono qua, primo romanzo in 13 anni, prima uscita europea e mi chiedete di Kanye West, ma è troppo mondano e sornione per non fare buon viso, e così Bret Easton Ellis racconta Kanye West a un pubblico un po’ ridacchiante e un po’ imbarazzato. Delle Schegge parleremo dopo, pare dire con gli occhi, e in quegli occhi brilla una sicurezza che può venire solo da un romanzo che si sente pienamente riuscito.
Tornare alle antiche atmosfereLe schegge è in effetti un romanzo eccezionale, è il miglior BEE, il BEE che abbiamo lungamente atteso, è un ritorno sfolgorante sulla scena, con tutto l’armamentario stilistico e tematico a cui ci ha abituati, e pure diverse sorprese nuove. Certo, appare evidente come si tratti di un romanzo in cui l’autore ha voluto andare sul sicuro. Nelle Schegge abbiamo dei ragazzi bellissimi, ricchissimi e vuoti, proprio come nei suoi primi romanzi, e su quei ragazzi aleggia l’ombra di un serial killer, che non può non fare pensare ad American Psycho. L’autore che abbiamo amato, per il quale siamo ancora disposti ad affollare un teatro sulla fiducia, è tornato, ed è tornato anche nei suoi territori più intimi e più mappati. Nelle Schegge, Ellis si prende il tempo e il gusto di mischiare le carte, ma senza uscire dal suo seminato più classico, portandoci in giro (ovviamente su decapottabili di lusso dalla cilindrata fuori proporzione per degli adolescenti) per i quartieri alti di una Los Angeles al neon, dal vago sapore vaporwave ma con in più un costante, e crescente, senso di minaccia.
Vizi e virtùChi ha confidenza con la prima narrativa di Bret Easton Ellis riconoscerà subito i suoi teenager in polo color pastello e Ray-Ban (o in divisa scolastica nei giorni lavorativi: sono tutti iscritti alla privata e costosissima Buckley), che si aggirano di serata in serata, di festa in festa, di locale in locale in un’alternanza di up da cocaina e down da psicofarmaci, spesso cercando sesso, ma sempre senza passione, perché in fondo solo la noia è davvero cool. «Il protagonista si chiama Bret, come me – spiega Ellis – e rimanda ai personaggi dei miei primi romanzi, ma in realtà io non ero come loro. Ho avuto una giovinezza culturalmente ricca, con tante letture, tanto cinema e tanta buona musica, che è poi quella che fa spesso da colonna sonora alle Schegge. Certo, ci divertivamo come loro. Usavamo droghe? Naturale: eravamo ragazzi, ci volevamo divertire e ci siamo divertiti: non siamo mai stati utilizzatori problematici».
La dimensione della memoria«Come racconto nel romanzo – aggiunge Ellis – i miei primi libri cercavano di fotografare una certa atmosfera che sentivo nella California degli anni Ottanta, e lo facevano per sottrazione. Cercavo di togliere come se stessi affilando una lama, per arrivare a un certo senso di vuoto, e anche a una certa estetica. Le schegge è sì un libro ambientato nello stesso periodo, con personaggi analoghi a quelli dei primi romanzi, ma è scritto volgendosi all’indietro, con lo sguardo di un quasi sessantenne, più smaliziato ma anche più indulgente e comprensivo, privo di quella spietatezza a volte un po’ manichea che si può avere da adolescenti. A quei tempi cercavo una coolness estrema, e ciò non significa che non ne vedessi le contraddizioni: era solo diverso il modo con cui volevo raccontare le mie storie».
L’età sopraggiunta«È tutto più difficile, da vecchi, no?», ride Ellis. «L’amore, soprattutto... ma è più difficile tutto. Per questo chiunque, io credo, ha nostalgia della giovinezza. È vero che il primo seme di questo romanzo l’ho elaborato quando avevo l’età del protagonista, e come il protagonista volevo sfondare nella scrittura, che fossero romanzi o sceneggiature. Ma poi, per trovare la voce giusta, e anche il giusto approccio, ci sono voluti quasi quarant’anni. La prospettiva delle Schegge, quella che cercavo ma non potevo sapere di volere, è infatti quella di qualcuno che di anni ne ha più di 50, e tanto tempo dopo certi eventi che l’hanno turbato, cerca di rimettere assieme i pezzi». E poi: «È chiaro che i ragazzi delle Schegge, tutti così belli e patinati, sono figure estetizzate, volutamente esagerate, mediate dall’immaginazione del narratore: mi stupisco che a volte non venga capito. Certo, le ambientazioni erano quelle, e anche certe fragilità erano reali, ma teenager esattamente così non sono mai esistiti se non nelle mie fantasie: gli adolescenti non si comportano così, non pensano così, e di certo non fanno sesso così».
Cambio di stileLe schegge si fa notare anche per il cambio di stile: la prosa di Ellis è se possibile ancora più perfetta, ma ha abbandonato il minimalismo che l’aveva fin qui caratterizzata, trovando un maggiore respiro, sia sul piano empatico, sia su quello strutturale. Nelle Schegge, grandi piani sequenza sulle feste, gli appartamenti, le highway attraversate da quella gioventù ricca e corrotta (e dai loro genitori, anche peggiori), si alternano a un ritmo da grande thriller. Andando avanti nel romanzo sentiamo montare una notevole tensione, e la paranoia del lettore aumenta di pari passo a quella del protagonista, fino a un finale addirittura action.
I «sensitivity reader»Né mancano i momenti horror, e persino splatter. Qualcosa che, nella narrativa americana contemporanea, non è più così scontato fare: «Da questo punto di vista la situazione, nell’editoria statunitense, sta sfuggendo di mano», racconta Ellis a uno stupito pubblico francese. «Bisogna sempre stare molto attenti a ciò che si scrive, quando si parla di violenza, ma in generale quando si parla di tutto: esistono infatti ormai i sensitivity reader, figure ingaggiate dalle case editrici per valutare un romanzo secondo le presunte sensibilità delle minoranze, in modo da essere sicuri che il tuo libro non offenda nessuno, e così ti senti chiedere cose allucinanti. Per dire: mi hanno chiesto perché non avevo scritto la storia della colf latina della famiglia del protagonista, o del cameriere nero di uno dei comprimari, e io: “Be’, non li ho approfonditi perché è la storia di alcune, peraltro pessime, famiglie bianche e quelle sono solo comparse in quel mondo bianco che era la California dei ricchi degli anni Ottanta”». «Chiaramente – continua —se hai già una reputazione, un pubblico, puoi anche riderne, ma per un autore agli inizi sono cose che possono avere un peso, condizionarlo, causargli problemi. C’è chi mi ha rinfacciato che i miei omosessuali fossero cattivi. “Eh”, gli ho detto, “sapete, gli omosessuali sono persone, e ci sono persone buone e persone cattive...”. Trovo tutto ciò assurdo: noi ragazzini degli anni Ottanta, quando leggevamo o guardavamo un film, volevamo essere scioccati, offesi, provocati!».
Robert MalloryA fine presentazione vado da lui e gli chiedo se gli sembra di essere diventato più buono, e se la causa di quest’impressione che emerge dalle Schegge sia Robert Mallory, il «cattivo» del libro, come se avesse funzionato da attrattore di tutto il male, rendendo così empatia a lui. «Non so – dice Ellis – se ho convogliato il mio lato oscuro in Robert. Anzi non so se ho ancora un lato oscuro... Ormai faccio una vita molto tranquilla, sa? La verità è che proietto sempre molto, e Robert Mallory, anche se è certamente una figura inquietante – ma scopriremo che anche il buon Bret non è del tutto a posto – rappresenta soprattutto qualcos’altro: la tendenza che avevo, da adolescente, a immaginarmi le storie più assurde attorno a chiunque conoscessi, o anche solo vedessi. Ricordo che un amico si infuriò quando, leggendo una mia storia, vide che ne avevo fatto un gigolò per uomini, cosa che lui non era di certo, ma io me lo ero immaginato: quando qualcuno spariva dalla circolazione per un po’, mi figuravo subito le motivazioni più losche e fantasiose. Il Robert Mallory delle Schegge può essere davvero il ragazzo bellissimo che vidi un giorno al cinema, e sul quale mi immaginai di tutto, fino ad arrivare, come accade al Bret del romanzo, a crederlo un manipolatore, un pazzo e forse addirittura un omicida seriale».