La Lettura, 7 ottobre 2023
L’ultimo romanzo di Bret Easton Ellis
Immagino che invecchiare non fosse nei piani di Bret Easton Ellis. Come Mark Twain, come Scott Fitzgerald, come J. D. Salinger, per citare predecessori illustri, Ellis ha puntato tutto sulla giovinezza. E lo ha fatto con slancio, precocità e irriverenza impareggiabili.
Da qui il mio imbarazzo. Come affrontare il romanzo della maturità dello scrittore immaturo per antonomasia?
Ecco perché, prima di dire la mia su Le schegge, in uscita per Einaudi, converrà tornare indietro di qualche decennio, agli esordi. Quei quattro romanzi dai titoli sorprendentemente iconici: Meno di zero, Le regole dell’attrazione, American Psycho, Glamorama. Pubblicati a intervalli irregolari nell’ultimo scorcio del secolo scorso, danno al lettore l’illusione di essere stati scritti in presa diretta, mentre le cose avvenivano. Leggendoli, si avverte una sintonia inestricabile tra epoca, autore e personaggi: una solidarietà, venata di orgoglio generazionale. Se il termine, applicato a Ellis, non suonasse incongruo, si potrebbe parlare di età dell’innocenza.
Questa prima fortunata stagione trabocca di ragazzi ricchi, strafatti e disinibiti. Ellis ne canta le gesta con naturalezza, come se ci fosse appena andato a cena. Oggi, a distanza di parecchi decenni, possiamo dirlo: il suo talento nel celebrare la sbornia edonista dei primi anni Ottanta – il mix di irresponsabilità civile, alterazione etilica, paranoia chimica e bulimia sessuale – non ha eguali. Il suo immaginario è talmente compatto e caratteristico da rischiare il manierismo: le griffe di moda, la musica plastificata, i videoclip, la pornografia, i blazer di Ralph Lauren, i preppy psicopatici che per uccidere trovano sempre il pretesto più futile: un biglietto da visita non abbastanza elegante, un locale esclusivo in cui non si trova mai posto. C’è sempre qualcosa di imbelle e satanico nell’avvenenza dei suoi eroi e delle sue eroine. In un mondo senza adulti, senza poveri, senza brutti, a farla da padrone è questa sarabanda di attraenti giovanotti Wasp, suicidari e pervertiti che senza scorte industriali di Xanax, vodka e cocaina non saprebbero come arrivare a fine giornata. Fragili, emotivi, paranoici, a loro modo persino introspettivi, non sai mai se invidiarli o compiangerli. Talvolta ti sembra che abbiano capito tutto, che abbiano vissuto più di quanto tu non saprai mai vivere e che lo abbiano fatto anche per te, per sopperire alla tua mancanza di audacia. Altrimenti ti sembrano zombie senza nerbo, destinati a disastro e dissoluzione.
La forza di tali invenzioni romanzesche è tutta nel tono di Ellis: scanzonato, sardonico, cinico fino al sarcasmo. In quanto a insolenza, la sua prima persona non ha nulla da invidiare a quella di Philip Roth. Niente di ciò che scrive è plausibile, e tuttavia non c’è scena che non trasudi sincerità. Ellis, un po’ come Jonathan Franzen, ma in modo inverso, ha la stoffa del moralista. In quanto tale, esecra le regole dei perbenisti e i ricatti dei puritani. Per questo i suoi romanzi sono migliori dei suoi saggi. Se i primi si limitano a registrare, i secondi si avventurano in giudizi sociologici un po’ troppo frettolosi. A ciascuno il suo.
Al periodo eroico, ne segue un altro, per certi versi crepuscolare (si fa per dire), inaugurato da un beffardo capolavoro come Lunar Park. A prima vista, l’ispirazione è la stessa, così come i personaggi e le ambientazioni. Ma non è così. A mutare è la prospettiva, il punto di vista: non più collettivo ma personale, non più in presa diretta ma retrospettivo.
Lunar Park è un’irriverente parodia orchestrata da un incorreggibile saltimbanco di mezza età. La performance di Ellis rasenta il virtuosismo. La destrezza con cui mescola reale e fittizio, memoir e horror, lucidità e delirio, auto-celebrazione e auto-denigrazione ha qualcosa di funambolico. L’incipit è tutto un programma: «Sei una perfetta caricatura di te stesso».
Come dicevo, nel frattempo qualcosa è cambiato. In un certo senso, Lunar Park sta a Ellis come The crack-up (Il cr0llo) sta a Fitzgerald. Ronald Reagan è morto, la storia ha ripreso a correre, l’impero americano è stato violato nei suoi simboli più maestosi, gli anni Ottanta sono un sogno remoto e improbabile. È allora che lo spettro di Robert Ellis, il padre, morto in circostanze misteriose, prende a minacciare il figlio, come il Commendatore minaccia Don Giovanni. La fantasia di Ellis è così fervida, così spregiudicata da sovrapporre alla figura del bieco genitore – un immobiliarista violento, narciso e alcolizzato – Patrick Bateman, il sinistro eroe di American Psycho.
Il ritratto sbozzato da Ellis di questo padre collerico e sociopatico è d’una ferocia spudorata. La morte del padre, ben lungi dal lenire il disprezzo del figlio, lo fomenta. «Quando portai i suoi vestiti Armani da un sarto perché me li accomodasse (...), scoprii disgustato che quasi tutti i pantaloni avevano il cavallo incrostato di sangue, e in seguito saltò fuori che quello era il risultato di una rudimentale operazione di allungamento del pene cui mio padre si era sottoposto a Minneapolis: negli ultimi anni era diventato impotente a causa del mix tossico di diabete e alcolismo. Lasciai i vestiti al sarto e tornai a Sherman Oaks in lacrime, gridando e prendendo a pugni il tettuccio della Mercedes mentre sterzavo forsennatamente lungo i canyon».
Sono passati più di quindici anni dall’uscita di Lunar Park. Frattanto c’è stato il passo falso di Imperial Bedrooms, una maldestra rivisitazione di Meno di zero (ancora una volta un titolo di Elvis Costello). Ormai lo scrittore immaturo per antonomasia veleggia verso la boa dei sessant’anni. Un traguardo che può averlo indotto a spingere la spietata indagine su di sé ancora più indietro, là dove tutto ebbe inizio: 1981, la Buckley School di Los Angeles, un liceo privato per figli di papà.
Sin dalle prime righe, Ellis presenta Le schegge come un tributo a una verità elusa per troppo tempo: «Eravamo adolescenti, bambini superficialmente sofisticati che non sapevano davvero nulla di come funzionava il mondo – lo stavamo sperimentando, immagino, ma senza averne cognizione. Almeno fino a quando non accadde qualcosa che ci proiettò in uno stato di esaltata consapevolezza».
Proprio come in Lunar Park, anche questo romanzo si configura come una sorta di memoir fittizio e inattendibile. La cosa buffa è che, almeno in apparenza, i liceali di Ellis non sfigurerebbero nel classico teen drama della West Coast: Beverly Hills 90210, Melrose Place e The O.C . E nemmeno in certi film provocatoriamente decadenti di Sofia Coppola: Somewhere o Bling Ring. Come dire, niente di nuovo sotto il sole della California meridionale. Sfarzo, fatuità, magioni milionarie, Bel Air, Malibu, Mulholland Drive, party in piscina, mall foderati di marmo, dotati di cascate artificiali, Mercedes decappottabili e Porsche Carrera. Peccato che sulla testa del nostro Bret diciassettenne e dei suoi indolenti compagni della Buckley gravi una specie di maledizione. Sbronzi, sballati, sempre in tiro, in preda a impetuose scosse ormonali, abusano di sé stessi lasciandosi andare a schermaglie più veneree che romantiche. Per non dire dell’impunita libertà di cui godono: «Quella dinamica era un esempio forse un po’ estremo di quanto molti di noi sperimentammo da adolescenti tra la fine degli anni Settanta e l’inizio del decennio successivo, quando non avere a che fare con i propri genitori per giorni e giorni di fila non sembrava particolarmente bizzarro e anomalo – i miei, per esempio, si assentarono per più di due mesi facendo una crociera per l’Europa nell’autunno di quel 1981, quando avevo diciassette anni, e né loro né io vivemmo la cosa come un problema o un motivo di particolare ansia». Naturalmente le cose non stanno così. Di ansie l’adolescente Bret ne ha così tante che quando non ne può più si rifugia nell’onanismo e nella fantasia, che poi a quell’età quasi si sovrappongono. Il disinteresse per il prosaico mondo degli adulti – la politica, l’economia, la socialità, lo sport – trova un alleato nella paranoia e un momentaneo antidoto nel solipsismo. «Erano il sesso e i romanzi e la musica e i film a rendere la vita sopportabile – non gli amici, non la famiglia, non la scuola, non la scena sociale, non le relazioni – e quella era stata l’estate in cui una settimana sì e una no avevo visto I predatori dell’arca perduta ma avevo a stento un paio di volte cenato con i miei genitori separati. Non investivo nel mondo reale – perché avrei dovuto? E la cosa mi veniva ricordata quasi di continuo, visto che ero imprigionato in un’adolescenziale voglia di sesso che aumentava vertiginosamente e veniva costantemente sollecitata da ciò che trovavo erotico – e che tuttavia non potevo avere. Quello era il mio solo punto fermo. Quello aveva contribuito a fare di me il soggetto non più visibilmente partecipe».
Sorvolando sull’intreccio del romanzo, traboccante com’è dei classici ingredienti hardcore e splatter che sapranno elettrizzare l’affezionato lettore di Ellis, lasciatemi chiudere su una nota a margine, ma spero non del tutto trascurabile. Leggendo Le schegge, mi è spesso tornato in mente Dio di illusioni: il fortunato romanzo di Donna Tartt. Non sorprende che Ellis e Tartt siano uniti da un’amicizia antica, risalente ai tempi dell’università. Ad assimilare il romanzo d’esordio di Tartt all’ultimo di Ellis non è tanto il contesto (il primo anno di college per Tartt, la fine del liceo per Ellis), bensì il comune sentire che li anima, l’attenzione rivolta agli orrori della giovinezza, lo sguardo ironico, disincanto e visionario. Sul piano narrativo, ciò comporta uno stupefacente dispendio di energie emotive. Al netto delle ambizioni sbagliate, del narcisismo patologico, del compulsivo abuso di alcol e stupefacenti, ciò che accumuna gli eroi acerbi di Tartt a quelli di Ellis è la paura dell’abisso, un genere di terrore che non lascerà indifferente chi ha vissuto una giovinezza dorata e turbolenta.
Ciò spiega perché i protagonisti de Le schegge, con tutti i loro privilegi, siano assediati da questo senso di ineluttabilità e sconfitta. «Quel giovedì», scrive Ellis in uno degli ultimi snodi del romanzo, «tutto sembrava come un sogno – un film muto proiettato al rallentatore, che aveva come tema i sotterfugi, una crescente disperazione, i segreti, e una qualche trappola sul punto di scattare, e tutti noi eravamo consapevoli di stare nello stesso film anche se ognuno di noi desiderava un finale diverso».
P.S. Una menzione speciale merita la traduzione di Giuseppe Culicchia. Volgere in italiano il fraseggio sincopato e lussureggiante di Bret Easton Ellis è un’impresa che solo uno scrittore poteva permettersi.