La Stampa, 7 ottobre 2023
Trasmettere il sapere
La scuola è stato il mio vero lavoro, certo. Ma potrei dire che anche la scrittura, di poesie e romanzi, era il mio vero lavoro. Non ho voluto che le due cose coincidessero e le ho lasciate separate.
Ho sempre pensato che avere due vite sia meglio che averne una sola. Ma poi non è così, le due vite sono sempre una sola, perché l’una finisce per alimentare l’altra. Diciamo che la scuola è stata la postazione da cui, per scrivere, guardavo il mondo; ma la scrittura è stata il filtro attraverso il quale guardavo la scuola, e non posso dire che non mi abbia condizionata.
Io non facevo l’insegnante, facevo l’insegnante di Lettere. È diverso. Insegnavo perché mi piaceva la letteratura. Mi piaceva talmente che insegnarla era una conseguenza, il gesto più spontaneo e necessario: dovevo passarla, non potevo tenermela per me. E di questo ho scritto qui, non di scuola in generale, ma di quanto ancora sia bene insegnare la letteratura ai ragazzi, oggi più che mai, in ogni ordine e grado di scuola, e soprattutto a quanti non sarebbe dato di incontrarla altrove.
A dispetto di tutte le teorie utilitaristiche e tecnocratiche, che considerano l’istruzione solo un mezzo per imparare un mestiere, e credono che con la tecnologia si sostituirà il sapere, lo studio. La letteratura aggiunge una ricchezza e una profondità alla persona che siamo, così come nulla potrà mai fare. Tanto meno l’intelligenza artificiale.
Ora non insegno più, da otto anni, e il mio cane è morto. Ma riscriverei questo libro tale e quale. Credo sia ancora molto attuale. Registrava una discesa che allora era solo all’inizio, e adesso si è compiuta. La rotta non è mai cambiata. Ancora oggi non si fa altro che parlare di progetti, metodi, strategie didattiche, sostegni, orientamenti, disagio, fragilità, formazione, recuperi, apprendimenti, innovazione e digitalizzazione. Mai un cenno a qualcosa che si chiama studio, cultura, conoscenza, pensiero... Svalutata la sostanza culturale dell’insegnamento.
Svalutato il verbo trasmettere, secondo me pilastro della scuola. “Mandare di là”, consegnare, trasferire all’altro. Passare ai giovani l’immenso patrimonio che noi stessi a nostra volta abbiamo ricevuto, perché non vada perso. Se la catena s’interrompe, perdiamo tutto. È un’idea molto semplice, e anche molto ovvia. Non ci sarebbe bisogno di parlarne se oggi non si sentisse dire dagli esperti che l’insegnante “depositario del sapere” non funziona più, è fuori tempo, inutile, perfino dannoso. Non deve riversare nozioni sugli allievi riempiendoli come imbuti: non deve far lezione, bensì promuovere attività, laboratori, tutoraggi; e deve ascoltare, capire, aiutare.
Non so. A me non piace che la scuola diventi essenzialmente un’agenzia di servizio psicologico e sociale. Certo che deve aiutare i ragazzi, soprattutto i più svantaggiati e quelli che più patiscono disagio: ma perché non potrebbe aiutarli proprio credendo in ciò che l’ha sempre contraddistinta come scuola, cioè tramandando la storia, il pensiero e le opere dei grandi? Non ci trovo nulla di male nel passare il sapere, anzi: non riesco a immaginare un aiuto migliore. Possiamo chiamarlo in un altro modo, se la parola “sapere” non ci piace più, basta che lo trasmettiamo, che non lasciamo i giovani soli e sperduti a vagolare nelle aride praterie del nulla. L’insegnante non dovrebbe abdicare al suo ruolo culturale, e limitarsi ad aiutare i ragazzi psicologicamente perché sono fragili. I giovani non sono fragili, semmai patiscono un vuoto che noi contribuiamo a far crescere, se non passiamo loro più niente, se lasciamo che tutto muoia con noi.
Sia chiaro, oggi la trasmissione del sapere non è stata ufficialmente interrotta. Non è che abbiamo abolito Omero, Petrarca, Manzoni e Calvino. Non è che il Ministero abbia detto stop, d’ora in poi niente più letteratura, facciamo solo scienze e alternanza scuola-lavoro. Ma trasmettere il sapere è diventato un compito secondario. E, tutto sommato, da non portare fino in fondo, fino a esigere uno studio serio. Certo che i programmi si svolgono ancora, ma poi non si pretende anche che gli studenti sappiano quel che dovrebbero sapere. Si lascia correre. Così, su 100 ammessi alla maturità ne vengono promossi 99, salvo poi constatare che tanti di loro sanno poco o niente. È questo chiudere un occhio che non va bene. Vuol dire rilasciare false certifi cazioni, in un certo senso... Vuol dire che alla fine la scuola non ci crede così tanto a una vera preparazione culturale dei ragazzi, tiene di più al loro “benessere”. Ma se il benessere poi si traduce in vuoto e ignoranza, non fa per niente il loro bene. Non so prevedere come sarà la scuola del futuro. Ma, se abbiamo cominciato a chiederci quali competenze utili fornisca lo studio della Divina Commedia, e se in ossequio alle soft skills finiremo per” insegnare” empatia e gestione dello stress, ho l’impressione che il disegno sia abbastanza chiaro: sarà una scuola al servizio del mercato (orientamento, sbocchi professionali, ecc...) e della retorica dei bisogni speciali e delle fragilità. Scuola del lavoro e scuola del soccorso. Tradotto: la cultura è un lusso che abbiamo deciso di non permetterci. Così, la lasciamo ai fi gli delle classi alte. Ora sì che ci sarà davvero una scuola d’élite, e dall’altra parte una scuola-ospedale che cura i fragili.
E questo mio librino di vent’anni fa? Inutile oggi, fuori tempo e anche patetico? L’ultimo grido di dolore di una specie in estinzione? Si vedrà.
Penso che il vero progresso non sia solo innovazione, ma anche – come aveva intuito Pasolini – conservazione di ciò che è imprescindibile. Dedico quindi questa nuova edizione ai miei colleghi insegnanti. So che sono ancora in molti, nonostante la confusione che li circonda, a credere nel valore del sostantivo cultura e del verbo trasmettere. Perché poi le teorie didattiche, le formule, le strategie, le parole-bandiera, vanno e vengono. Come le onde. Ma lo scoglio sa che deve stare fermo a fare da scoglio. Lo sa benissimo.