Corriere della Sera, 7 ottobre 2023
Un Paese che si svuota
Le parole contano. E raccontano. Qui la parola chiave è «flussi». Sicché, quando parliamo di «flussi migratori», ricorriamo al naturalismo per descrivere un evento strutturale nella storia dell’uomo, in qualche misura assimilandolo al normale flusso dell’acqua che scende dai monti a valle e che «nessuno si metterebbe in testa di contestare come fenomeno: c’è». Si può regolare, quel flusso, incanalarlo, persino sfruttarlo per ottenerne energia. «Ma non puoi pensare e nemmeno sperare di fermarlo, dato che sarebbe contro l’interesse della società, e comunque impossibile, come fare andare un fiume all’incontrario», scrive Stefano Allievi.
Fuor di metafora, stiamo rinunciando da molti anni alle opportunità che i flussi migratori ci offrono per ridare vigore a un mondo del lavoro esangue e a una società invecchiata. E stiamo sprecando forze per… fare andare un fiume al contrario. «Aver di fatto appaltato il controllo dei confini alle mafie transnazionali» trincerandosi dietro una chiusura delle frontiere formale e fasulla, «aver incrementato massicciamente l’immigrazione irregolare avendo reso quasi impossibile quella regolare», «aver sostanzialmente inventato la categoria del richiedente asilo di massa per l’ottusa resistenza ideologica a voler ammettere che occorrevano anche migranti economici»: meccanismi che abbiamo finito per considerare normali, fingendo di non vedere la loro contraddittorietà e, soprattutto, la loro inefficacia.
Se il problema degli sbarchi è ancora così attuale e deflagrante dopo tre decenni di «emergenza», se dall’arrivo della nave Vlora nel porto di Bari (anno 1991) non abbiamo ancora preso le misure al fenomeno, se dalla morte di Jerry Masslo nelle campagne di Villa Literno (anno 1989) continuiamo a considerare il lavoratore straniero come un possibile schiavo o un pericoloso alieno, beh, qualche domanda dovremmo farcela. E infatti Allievi, ordinario di Sociologia a Padova e da trent’anni fra i massimi esperti di migrazioni in Italia, le domande se le fa (e ce le fa) tutte nel suo Governare le migrazioni. Si deve, si può, ora in libreria per Laterza. Una, ricorrente, sulle altre: «Ha senso tutto questo?», ripetuta come «una litania o un salmo responsoriale», aggiunge l’autore con triste vena ironica.
Il libro è molto «laico»: nel senso di volutamente lontano dai facili slogan di fazione o dalle soluzioni un tanto al chilo propalate nei talk e persino in qualche fortunato saggio tossico. Lungi dall’imporre ricette, si pone come un invito alla riflessione sugli ingredienti possibili con cui comporle, tenendo come piano di assemblaggio una base di buon senso, «assumendo lo sguardo largo della complessità, rifiutando quello ristretto delle pseudosoluzioni con una sola variabile».
Allievi (chi lo segue da tempo lo sa) non è privo di convinzioni forti sulla materia. Ma ha ormai maturato una totale apertura verso quelle altrui. Cominciando dal rispetto per la paura, sentimento spesso suscitato dalle migrazioni e bersaglio di due approcci ugualmente storti: quello di chi liscia il pelo alla paura «senza aver fatto nulla per rimuoverne le cause, anzi alimentandole, così che la paura cresca e, con essa, il consenso»; e quello degli «autoproclamati buoni» che evitano persino di parlare degli argomenti di cui la paura si alimenta nel timore che, «al solo evocarli», si portino voti agli avversari. Chi vedesse in queste due tendenze il profilo di una certa destra e di una certa sinistra nostrane non sbaglierebbe.
La domanda di sicurezza è sacrosanta: la chiave è l’ascolto e la capacità di partire da dati reali. E la demografia è un dato. In Italia gli over 65 sono più degli under 15 e andrà sempre peggio, siamo in recessione demografica e l’immigrazione (quasi 6 milioni di persone con un milione e 300 mila minori) si inserisce in questo contesto: gli sbarchi, che monopolizzano i tg, sono solo un tassello, non il maggiore. L’emigrazione dei giovani italiani (spesso laureati e diplomati) è un dato assai più allarmante, anche se sottaciuto. Gli immigrati, regolari e irregolari, non ne coprono l’emorragia. Sicché le emergenze (vere) sono due: «È costantemente negativo il saldo nati/morti, ma occasionalmente, in anni recenti, è stato negativo anche il saldo emigrati/immigrati». Immigrati che, si badi bene, non impattano, se non per un segmento minimo e meno qualificato della mano d’opera, sui nostri giovani. I ragazzi italiani, diplomati per quattro quinti all’ingresso sul mercato, preferiscono essere Neet (fuori da percorsi di studio e lavoro) piuttosto che fare «lavori da immigrati» (assistenza agli anziani, bracciantato, manovalanza in edilizia). Senza manodopera immigrata molti lavori resterebbero scoperti, bruciandoci un decimo del Pil. Al tempo stesso, non creiamo abbastanza impieghi qualificati per i nostri laureati/diplomati autoctoni e per gli immigrati con più alto livello di istruzione. Un’altra bella contraddizione.
Pagina dopo pagina, il professore padovano continua a smantellare luoghi comuni. Sostenere che la difesa dei confini sia «un argomento reazionario» è un nonsense. Territorio, legge e popolo ci definiscono. Ma difendere i confini con un blocco navale è un’assurdità costosa e impraticabile (come può spiegare qualsiasi marinaio) e farlo combattendo le Ong (che portano meno del 10 per cento di arrivi via mare) è come «fermare l’acqua corrente riportandola nel rubinetto usando un colino».
Più che sugli arrivi si tratta allora di lavorare sulle partenze (benvenuto, dunque, il piano Mattei di Meloni? Forse, purché si sostanzi in qualcosa di reale, progetti e finanziamenti oltre le chiacchiere). Il proibizionismo creò il contrabbando d’alcol. Gli scafisti, in qualche modo, li creiamo noi, non regolando le vie di partenza. Si può fare? Anche qui, molti ingredienti possibili: visti biennali per ricerca di lavoro, limiti annui e quote per Paesi di provenienza tarate sui nostri fabbisogni, fedina penale pulita, pagamento anticipato dell’assicurazione sanitaria e del biglietto aereo di ritorno, pratiche di rimpatrio regolate assieme agli organismi internazionali (Oim, Unhcr e simili). È la via per ammettere che i «migranti economici» ci servono, eccome, e che il loro flusso non c’entra nulla coi richiedenti asilo, ai quali dobbiamo solidarietà, come da Costituzione.
Alla fine del viaggio, il vero avversario da battere resta l’ideologia. Anzi, l’ideologismo, sua esaltazione malata. Ciò che rende inemendabile il trattato di Dublino. Ciò che ci fa confondere islam e jihadismo. Ciò che ci impedisce di riconoscere la cittadinanza ai figli dei migranti, un milione di nuovi italiani nati e/o istruiti tra noi, che parlano la nostra lingua meglio di tanti parlamentari. È a loro, e ai nostri ragazzi cresciuti con loro, che Allievi affida la speranza di «cambiamenti profondi»: a dispetto di noi, vecchie generazioni, e delle nostre regole spaventate. Compagni di banco multicolori, col tricolore nel cuore e «l’avvenire davanti agli occhi».