Corriere della Sera, 7 ottobre 2023
Intervista a Tinny Andreatta
Tinny Andreatta, se lei dovesse racchiudere la sua infanzia in una foto quale sceglierebbe?
«Io bambina che me ne sto sotto le coperte con il libro Cuore in mano, commossa».
Perché «nascosta sotto le coperte»?
«Perché a casa mia le favole lacrimevoli e non a lieto fine erano guardate con sospetto. Mamma era di Trieste, papà di Trento: lo spirito austroungarico imponeva rigore. Però, al tempo stesso, inculcava una grande idea di libertà».
Eleonora «Tinny» Andreatta è vicepresidente del contenuto italiano di Netflix: per capirci, è lei che decide come passeremo le nostre serate nei prossimi mesi. Ma è stata anche la prima donna direttrice di Rai Fiction, quella che ha firmato produzioni comeIl Commissario Montalbano o Imma Tataranni. Tinny, però, è una Capitana gentile.
Merito anche del nome fiabesco con cui la chiamano tutti?
«Una bella storia che racconta l’amore tra mio padre Beniamino e mia madre Giana».
Lui, futuro (tre volte) ministro, lei raffinata psicanalista, in India andarono a vedere una fiaba di Tagore al cinema. La protagonista era la principessa Tinny.
«Forse è per questo che fin da bambina ho amato le fiabe. Calvino, Dahl, Rodari».
È vero che da ragazza lei scappava per andare a vedere rassegne di film impegnati?
«Diciamo che scappavo per andare al cinema non appena potevo. Ma il vero spettacolo, quando ero bambina, lo allestiva papà in casa».
Che cosa faceva?
«Per esempio, ci permetteva di piazzare l’altalena in mezzo al corridoio. I miei genitori ci hanno lasciato liberi di giocare, anche se questo voleva dire mettere a soqquadro la casa. Quando ricevevano ospiti, questi attraversavano dei veri e propri fortini d’infanzia. Era un gran casino, ma che bei ricordi».
Nasce qui l’amore per ogni forma di racconto?
«Penso di sì, cosa che mi ha portato prima in Rai e adesso qui a Netflix. In mezzo, l’università di Bologna, professori come Ezio Raimondi, lezioni come quelle di Umberto Eco. Poi l’America, i corsi al dipartimento di italianistica della Ucla, dove Raimondi era visiting professor. Contatti con il mondo del cinema».
Tornata in Italia, ha deciso di mettersi a lavorare nelle produzioni. Prima esperienza, l’Academy Pictures.
«Che alla guida aveva una donna, Vania Traxler. Una che stupiva tutti con le sue intuizioni, ma anche una che se c’era da attaccare un manifesto si toglieva le scarpe e si arrampicava sulla sedia».
Qual è la cosa più difficile quando si guida una macchina come Netflix?
«Sapere che hai un pubblico tanto vasto quanto sofisticato. Ma non solo. Ormai non c’è più un flusso univoco, cioè una marea che dagli Stati Uniti arriva in Europa e quindi in Italia, ma ci sono prodotti italiani che si espandono e conquistano altri mercati. Questo vuol dire fare serie e film che non “parlino” solo a noi».
Dopo aver visto il film di Nanni Moretti, sappiamo che «parlate» a 190 Paesi.
«Ecco perché nelle storie che produciamo ci devono essere ingredienti diversi: l’umanità e anche una qualità universale. Pensi solo alla serie su Lidia Poet, la prima donna avvocato italiana: è una storia di casa nostra, ma il problema delle donne nel mondo del lavoro riguarda tutto il mondo. E poi basta con gli stereotipi, mi piacerebbe raccontare un’Italia diversa, con più sfumature».
Lei ha portato «L’amica geniale» su Rai 1: qui può dirlo, chi è Elena Ferrante?
«(ride) Anche se lo sapessi non lo direi».
A Netflix l’ha ritrovata con «La vita bugiarda degli adulti».
«Ferrante è un ottimo esempio per capire come si può “alzare l’asticella”: si parte da un mondo visionario, ricchissimo di vita e di verità, per arrivare a una narrazione forte, a tratti sconvolgente».
Anche quando stava in Rai di lei dicevano che è una capace di alzare l’asticella.
«Dopo qualche anno in azienda avevo buttato giù degli appunti su come, secondo me, doveva evolvere il mondo della fiction. L’allora direttore generale Gubitosi li lesse e mi convocò in pieno agosto. Arrivai da lui con i sandali pieni di sabbia, pensavo “mi licenzierà”. Mi fece direttrice».
Che cosa sosteneva in quegli appunti?
«Che la serialità non deve avere paura della complessità culturale, che bisogna affrontare sensibilità diverse».
In effetti, in casa Netflix, lei tocca parecchie corde. Da «Tutto chiede salvezza» di Daniele Mencarelli a «Supersex», la storia di Rocco Siffredi (in arrivo).
«Né l’una né l’altra sono corde facili da toccare. L’empatia e la provocazione. Ecco perché bisogna fare bene le cose. Mio padre mi faceva spesso l’esempio degli scalpellini che hanno fatto il Duomo di Milano: sosteneva che non solo facevano perfettamente la parte visibile, ma anche quella che in teoria sarebbe stata accessibile solo a Dio e ai piccioni. Io ho sempre cercato di fare così».
Imparare a vedere l’invisibile, una capacità appartenuta a un altro dei suoi maestri, Umberto Eco.
«Ricordo le sue lezioni meravigliose, dove ci insegnava non solo a vedere, ma anche ad ascoltare. In casa Netflix è una forma di arricchimento, perché ti confronti con decine di culture differenti».
E com’è Don Matteo?
«Terence Hill è un vero antidivo: popolarissimo, mantiene una sua rigorosa riservatezza. E ha anche un forte interesse laico per la spiritualità».
Una donna che l’ha colpita in modo particolare?
«Mamma mia, tantissime. Da dove comincio? Da Cristiana Capotondi che ha un cuore grande così? Da Francesca Archibugi che è bravissima? Come Francesca Comencini, del resto. Da Vanessa Scalera che ci ha stupiti tutti quando è “diventata” Imma Tataranni in pochissimo tempo? O da Francesca Cima che è una straordinaria produttrice?».
Come definirebbe se stessa?
«Mi piace il titolo di questa serie, Capitane. Io penso di essere una Capitana dei mondi possibili. Quelli immaginati e quelli concreti, quelli dove bisogna affrontare le difficoltà e quelli dove godersi anche i successi che arrivano».