Tuttolibri, 7 ottobre 2023
Intervista a Patrick McGrath
Fu perché da piccolino aveva il permesso di entrare nei corridoi del manicomio e osservare le anime perdute che là dentro erano rinchiuse. E perché suo padre, psichiatra, gli raccontava che la schizofrenia è una personalità in frantumi. E anche perché si formò il gusto della lettura sui classici del gotico che Patrick McGrath, come pochi altri, è riuscito a inabissarsi nei meandri della mente umana, là dove la parte irrazionale se ne sta in agguato pronta a scompaginare la ragionevolezza dell’esistenza. Simbolo ne è la magnifica protagonista femminile di Follia che tutto ha e che tutto vuole perdere. Ma anche la bella e severa Joan (protagonista della Guardarobiera) che grazie a qualche goccio di gin e a una discreta dose di ossessione amorosa cerca in un giovane attore l’anima e il corpo del marito defunto. Dieci romanzi, 73 anni, una moglie con la quale vive da trent’anni tra Londra e New York, McGrath è uno dei più affascinanti scrittori di lingua inglese. Raccapricciante e bizzarro al tempo stesso.
Come ricorda la sua infanzia nell’istituto psichiatrico di massima sicurezza?
«Broadmoor era un posto affascinante e sicuro. C’erano dei pericoli ovviamente, ma i pazienti erano protetti da mio padre e dai suoi colleghi che ogni giorno facevano di tutto per creare un senso di pace nelle loro afflitte esistenze».
Fu un bel posto dove crescere?
«Per noi piccoli, sembra strano, era un posto idilliaco. Una sorta di sonnacchiosa tenuta nobiliare. C’era un giardino con prati e alberi, una fontana con i pesci rossi, un orto e, soprattutto, un folto boschetto di rododendri dove potevamo giocare a nascondino e accendere fuochi. I pazienti che lavoravano in libertà condizionata come giardinieri furono i primi amici miei e dei miei fratelli».
Se lei guarda oggi la foto della sua famiglia del 1958 come la descriverebbe?
«Vedo una famiglia felice. Un padre autorevole, una madre molto comprensiva e, fino al 1958, tre figli felici (anche se la vita non permette ai bambini di essere felici molto a lungo)».
Quell’ambiente l’ha influenzata?
«Sono rimasto invischiato nelle domande che aleggiano intorno alla malattia mentale e al lavoro degli psichiatri».
Che uomo fu suo padre?
«Che domanda impegnativa! Pat McGrath era il direttore molto rispettato di un enorme istituto psichiatrico, complicato e a volte anche pericoloso. Nessuno contestava la sua autorità. Ho lavorato anch’io a Broadmoor per un po’ di tempo, mi ricordo bene la sua autorità e la sua fermezza nel prendere le decisioni. Era un uomo estremamente intelligente e saggio, dotato di grande autorevolezza e senso dell’umorismo. Rimase in carica a Broadmoor per oltre 25 anni, più di qualsiasi altro prima di lui».
Quale fu la missione che suo padre si dette all’interno dell’istituto?
«Erano due: informare le persone sul lavoro terapeutico di Broadmoor e accorciare il periodo di permanenza dei pazienti nell’istituto, nella maniera più umana possibile».
Sua madre era felice di vivere nell’istituto?
«Adorava l’ospedale. Era una donna irlandese che adorava la vita in società, sempre allegra e felice di partecipare alle feste. Era molto ben voluta dal personale dell’istituto».
Lei a cinque anni “già sapeva cosa fosse l’incapacità di intendere e di volere per cui l’imputato, non essendo in grado di comprendere il significato morale delle sue azioni, non ne può esserne ritenuto responsabile”. E suo padre non era così d’accordo. Adesso lo sa ancora?
«Difficile dirlo. Ovviamente mio padre sapeva bene che un uomo che non comprende il significato morale delle proprie azioni non può esserne ritenuto responsabile. Broadmoor era nata proprio per quegli uomini e quelle donne. Era un’istituzione sicura, nata sicuramente per proteggere la società, ma che non si limitava, come un carcere, a rinchiudere uomini e donne pericolosi, bensì se ne prendeva cura, li aiutava e possibilmente li guariva, per poterli poi far rientrare in società».
Crede quindi che i “manicomi” debbano continuare a esistere.
«Sì, ritengo che gli ospedali psichiatrici debbano continuare a esistere. Senza istituti come Broadmoor, ritorneremmo a forme di isolamento e punizione primitivi. Nella furia distruttrice che periodicamente colpisce tali vestigia dell’epoca vittoriana, si dimentica che è nostro dovere proteggere le persone che soffrono di malattie mentali dalla loro stessa vulnerabilità. Malgrado tutti i suoi difetti, Broadmoor era un porto sicuro per le anime perdute e confuse che lì si raccoglievano».
Che cosa pensa del nostro Basaglia che invece li ha chiusi?
«Non conosco in profondità il lavoro di Basaglia, ma ammiro la sua rivoluzione psichiatrica e penso che abbia fatto del bene».
Si può raccontare la follia letterariamente?
«Non è così facile. All’inizio, lo scrittore deve sedurre il lettore, deve farlo sentire a suo agio e al sicuro. Poi deve arrivare lo shock, dove più niente è come sembrava al principio e il personaggio che sembrava l’unico sano di mente improvvisamente impazzisce».
Quando ha capito che voleva fare lo scrittore?
«A 25 anni. Sapevo che sarebbe stato il lavoro della mia vita (e ancora continua!)».
La maggior parte delle recensioni contenute nel libro riguarda la letteratura gotica: perché la ama così tanto?
«Adoro il gotico per la sua inclinazione al mondo delle tenebre. Adoro il suo anelito alla follia che fa sempre parte di noi».
Altro suo pregio, o scandalo, fu quello di far emergere il desiderio sessuale femminile in un’epoca in cui le donne dovevano essere educatamente frigide.
«Le provocazioni del gotico sono tante, non solo di natura scabrosa. Il modo in cui esplora le turbe psichiche mi interessa molto più di qualsiasi sfruttamento del desiderio sessuale femminile».
Tra i romanzi simbolo annovera il «Monaco».
«È il nostro capolavoro gotico principale, probabilmente anche il più cupo. Di certo, il più perverso, sia dal punto di vista erotico che psicologico».
Quali sono i suoi preferiti?
«Horace Walpole. Bram Stoker. Mary Shelley. Robert Louis Stevenson. Herman Melville. E poi: uno, cento, mille volte, Poe».
Quando l’ha scoperto?
«Il mio primo contatto con Poe è stato il racconto La caduta della casa degli Usher. Il momento culmine della storia è davvero memorabile, dove trionfa uno strepitoso, e profondamente ispirato, senso della distruttività; un caos perfetto. Un capolavoro del terrore che rileggo di continuo».
Lei si sente gotico?
«Eh sì, naturalmente, sono molto fiero di essere associato alle loro opere!».
Si avverte anche la fascinazione per Melville.
«Un vero genio. Un esempio su tutti: Billy Budd. Uno degli apici della nostra letteratura, così straziante… Ma è solo un esempio dello straordinario talento di Melville, diversissimo ma altrettanto potente dell’altro capolavoro, parlo ovviamente di Moby Dick».
Che però non riscosse, a suo tempo, il successo che meritava.
«Molte delle qualità che oggi pensiamo lo rendano un capolavoro – dalle digressioni sugli aspetti mitologici, zoologici, culinari delle balene agli oceani di instabilità metafisica nei quali si svolge la caccia di Achab, agli sprazzi di improvviso humour – spiazzarono i contemporanei. Melville non ritrovò più la popolarità di cui aveva goduto con i suoi primi libri. Le difficoltà di salute mescolate a quelle economiche gli provocarono attacchi di depressione. Non riuscì più a mantenere la fattoria nel Massachusetts, fu costretto a tornare a New York dove morì dimenticato da tutti».
Lei ne fa anche il simbolo di un’America votata all’autodistruzione.
«La nave baleniera è ossessionata dalla bianchezza. All’inizio degli anni Cinquanta dell’Ottocento, quando Melville scriveva Moby Dick, molti avevano capito che la divisione tra gli Stati del Nord e quelli del Sud a proposito della schiavitù sarebbe sfociata in una sanguinosa guerra civile. L’America sarebbe stata drammaticamente lacerata proprio a causa della sua ossessione per la bianchezza».