La Stampa, 6 ottobre 2023
Intervista a Marco Paolini
«Ti dice niente il Vajont?». Comincia con questa domanda il monologo teatrale di Marco Paolini che dal 1993 richiama alla memoria una delle peggiori tragedie della storia italiana. Lunedì prossimo saranno sessant’anni da quella notte che ha spazzato via un’intera valle sul confine tra Veneto e Friuli Venezia Giulia. Il monologo continua così: «9 ottobre 1963. Dal monte Toc, dietro la diga del Vajont, si staccano tutti insieme più di 260 milioni di metri cubi di roccia. Cascano nel lago dietro alla diga e sollevano un’onda di 50 milioni di metri cubi d’acqua. Solo la metà scavalca la diga, più che sufficiente a spazzare via dalla faccia della terra cinque paesi: Longarone, Pirago, Rivalta, Villanova, Faè. Duemila morti». Un disastro naturale causato dagli errori umani: la Sade, l’ente che gestiva il bacino e la diga, aveva occultato i rischi della montagna.
Paolini, qual è la lezione del Vajont?
«Non compiere mai più gli errori del passato».
L’abbiamo imparato?
«Ci consoliamo attribuendo le colpe, celebrando la memoria. La storia del Vajont è quella di un avvenimento che inizia a poco a poco e poi accelera senza più freni. Inesorabile. Sono stati ignorati i segnali, che c’erano da almeno 3 anni, e quando si è preso coscienza del problema era troppo tardi. In questi tempi, dove rischio idrogeologico e crisi climatica sono ancora più forti, non si possono ripetere le stesse inerzie».
Il suo monologo ha trent’anni. Lunedì sera sarà riproposto in 136 teatri italiani. Vajonts, con la s plurale. La vicenda verrà resa attuale?
«Il monologo non ha bisogno di essere attualizzato, penso che quella storia ne contenga già delle altre: oggi chi lo ascolta pensa a se stesso, a ciò che accade ovunque. Il Vajont è qualcosa che ci tiene insieme, è un segno condiviso. Non siamo più gli stessi di 30 o 60 anni fa, oggi sappiamo, abbiamo letto i report, può accadere tutto su scala molto più grande».
Una storia universale?
«È come una tragedia classica. Per Vajonts siamo partiti dal basso, creando una rete di scopo, nessuno ci ha finanziato. Abbiamo scritto ai teatri e agli artisti per fare del teatro civile capace di dialogare con i cittadini».
Per dire cosa?
«Il compito di Vajonts non è affrontare le emergenze, ma fare prevenzione civile. Per farci sentire meno soli. È anche un invito al sistema teatrale, perché non si celebri solo la memoria. È una forma di resistenza. E di ribellione al destino».
Non ha paura che tanti spettacoli snaturino il progetto?
«No, anzi. Ogni teatro farà la sua versione, noi abbiamo dato un canovaccio, per il resto sono liberi. Abbiamo anche dato la possibilità di farlo a chiunque voglia da casa. Sul nostro sito internet sono arrivate richieste da tutto il mondo, così tante che è andato in tilt. Qualcosa del genere non è mai accaduto per un monologo teatrale, è l’effetto flashmob, ma questa non è un’azione muta. Si apre la bocca e si racconta a voce alta. L’oralità è la nascita della civiltà».
22,39. L’ora esatta della tragedia. Come la si spiega a chi non conosce la tragedia?
«Il momento esatto in cui l’acqua piomba su Longarone. Negli spettacoli di lunedì, tutti si fermeranno. All’epoca i giornali non sapevano nemmeno quante fossero le vittime, parlano di apocalisse nelle Alpi, Hiroshima del Cadore. L’acqua che scavalca la diga e arriva a valle farà alla fine 1.913 vittime. E proprio quella diga, ancora lì, ci fa credere che la forza della natura sia stata micidiale, che l’uomo non abbia responsabilità. Ci sono voluti anni e tante indagini per capire che non si tratta di disastro ambientale, è una definizione troppo ambigua, i francesi direbbero “disastro industriale"».
10 settembre 2023. A Derna, in Libia, due dighe crollano e l’acqua si mangia un’intera città. Ci sono similitudini con il Vajont?
«In quei giorni ciò che mi ha colpito di più è stata la nostra reazione. Al tempo del Vajont il primo pensiero di tutta Italia è stato: “Povera Longarone. Cosa possiamo fare per loro?”. Oggi il primo pensiero, ma anche il modo in cui è stata data la notizia sui tg, è stato: “Ora ci aspettano 46 mila migranti climatici in più”. Abbiamo registrato la notizia, un’immane tragedia, ma un attimo dopo ci siamo spaventati delle conseguenze a casa nostra».
Un ragionamento cinico, ma piuttosto diffuso.
«È un retro-pensiero, è la pancia che parla per noi, ma sarebbero cose indicibili. Non possiamo lasciare che l’amigdala, la ghiandola che gestisce le emozioni, abbia la meglio sulla corteccia prefrontale, la parte del cervello adibita ai pensieri sociali. Certo, le paure vengono prima della nostra cultura, ma non possono diventare la regola sdoganata».
La crisi climatica, però, aumenterà le migrazioni e in generale aumenterà l’incertezza. Come fare?
«Il clima determinerà spostamenti mostruosi, ma davanti a questo scenario l’argine che dobbiamo creare non è verso di loro, ma proprio verso l’amigdala, fermare il nostro spirito di autodifesa dal diverso. Dobbiamo ricostruire una dignità sociale».
Non le sembra una sfida persa in partenza?
«Se non sentiamo la solidarietà, almeno tacciamo la paura».
L’arte serve a questo? Andare oltre le nostre “impostazioni predefinite”?
«Non si possono offrire soluzioni. La forza della parola è quella di creare paradossi. Abbiamo un bisogno cane di investimenti in energie civili, di idee e dibattiti, che vadano contro negazionismo e demagogia. Sa cosa vorrei fare?».
Che cosa?
«Vorrei mettere diecimila scialuppe nelle città italiane. Non sulla riva del mare, ma in centro, nei parcheggi fuori dai teatri, nelle piazze. Chi se lo immaginava che sarebbero servite le scialuppe a Forlì, lo scorso maggio durante l’alluvione. Certo una scialuppa non avrebbe salvato nessuno la notte del Vajont. Ma oggi l’acqua arriva da sotto e la scialuppa è un guscio».
A cosa serve la scialuppa?
«Piazzarla in ogni città significa dire che non esiste più la terraferma e tutto è a rischio. Un’arca di Noè, per ricordarci che dobbiamo ancora salvarci».