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 2023  ottobre 06 Venerdì calendario

Intervista a Ottavio Bianchi

È stato il primo a risolvere sul campo la questione meridionale.
L’uomo del Nord che vinse al Sud compie 80 anni. A lui (anche) si deve il primo scudetto del Napoli (1987) e l’unica Coppa Uefa (1989).
Non solo la vita, ma anche il calcio vive di opposti: fantasia e austerità, Maradona in campo, Ottavio Bianchi in panchina. Il ragazzo che parlava con i piedi, anzi col sinistro, e l’uomo dalle poche parole.
Eccesso e sottrazione. Poco espansivo, poco socievole, poco malleabile. Ma un poco fatto di tanto. Nessuna propensione ai fuochi d’artificio. Una fusione fredda. Uno che per far ribollire il Vesuvio lo gelò con una crioterapia, anche personale. Bianchi è nato a Brescia, ma vive a Bergamo, nel calcio ha fatto tutto: giocatore, allenatore, dirigente.
Mai avuto l’idea di allenare le donne?
«Non ne sarei stato all’altezza. Non ho preclusioni, mi scuso, ma non ha mai fatto parte della mia cultura.
Sono cresciuto all’oratorio di Cristo Re, eravamo solo maschietti, poveri, ricchi, belli e brutti, dritti e storti, niente bambine. Sono di un’altra epoca, quella dove c’era ancora la poliomielite, se ti venivano i febbroni c’era da preoccuparsi. Quando mi chiedono chi sia il mio eroe dico Albert Sabin che non solo scoprì il vaccino anti-polio ma non lo brevettò per regalarlo ai bambini del mondo.
Allora si giocava ogni giorno fino allo sfinimento, oggi ci sono le scuole calcio, ma dove vai con qualche ora a settimana? Guardo poche partite in tv e ad audio spento, il Napoli contro il Real la sua partita l’ha giocata, ma la differenza sta nell’attitudine mentale. Il Real squadra e società sono abituati a vincere, il Napoli a quei livelli non ha ancora l’abitudine».
Iniziamo con ieri-oggi?
«No perché non si possono fare confronti. Noi facevamo file per poter chiamare le famiglie con l’unico telefono dell’albergo, il pranzo era due ore prima della partita: risotto alla parmigiana, filetto al sangue con spinaci, frutta cotta. Entravano in campo in piena fase digestiva. Non esisteva il lavoro in palestra, anzi se volevi punire qualcuno gli dicevi: vai a fare la ginnastica. E se passavi all’indietro non solo ti fischiavano, ma ti mettevano in castigo. Noi volevamo il pallone, non costruire fisici. Cosa credete che Maradona il gol con la mano contro l’Inghilterra l’abbia inventato lì sul momento? Ma sapete quanti me ne faceva così in allenamento?».
Spari.
«Almeno una decina. E le punizioni anche. E i falli laterali. Provava e riprovava. Non erano frutto solo di un’illuminazione, ma di dedizione all’allenamento. Il genio vede quello che gli altri non vedono. Ma poi sperimenta, tenta, si mette a servizio di quell’idea. Recita a soggetto, ma ha fatto pratica».
Lei ha giocato con Sivori, Rivera, Zoff, Altafini.
«E se per questo ho anche marcato Pelé in un’amichevole al Yankee Stadium di New York e devo dire che il signore non tirava mai indietro la gamba. E ho allenato i più grandi perché ho frequentato un tempo dove i migliori giocavano in Italia, mentre oggi sono altrove. E dove in Nazionale arrivavano i ragazzi dai vivai, ora a 20 anni vengono tenuti in letargo e quando sono maturi hanno 30 anni. Troppo tardi. Invece in Argentina e Brasile se a 13 anni sei nelle giovanili a 17 giochi, a 20 ti vendono e poi torni in nazionale. Così esportano calcio, noi invece importiamo».
Sempre innamorato dell’Argentina?
«Sì ma non me l’ha fatta scoprire Maradona. Mi piaceva la natura, la Patagonia, il ghiacciaio Perito Moreno, i cavalli, le albe, bere il mate con i gauchos nelle pampas.
Quel senso di libertà sconfinata. E soprattutto poca gente, anzi nessuno. Una meravigliosa solitudine».
Ci risiamo con l’uomo che nella sera dello scudetto fila subito a letto.
«Feci l’esame a Coverciano e compilai anche un questionario.
Mese preferito: ottobre. Cibo preferito: frutta. Venni catalogato come tipo strano. Il grave infortunio al ginocchio a 17 anni ha fatto il resto. E sì, la sera dello scudetto ero già in pigiama quando il presidente Ferlaino mi trascinò giù per un giro in città. Ero un recluso, per mia scelta, non è stato divertente. Non frequentavo nessuno, tranne il mio vice Casati, il direttore dell’albergo, il dirigente e amico Enrico Verga, Raffaele, il cuoco di Soccavo, e ogni tanto a cena Pesaola, intelligente e divertente. La famiglia l’avevo mandata via».
Asceta a Napoli, complimenti.
«Da giocatore ci avevo vissuto cinque anni. A Napoli devo il gusto e la mia educazione culturale, il teatro con la Melato, i concerti di Dalla. A Napoli ho imparato a vivere, a mangiare, a vestirmi, a leggere la storia, ad ascoltare la musica. Mi ha arricchito e maturato. È stata una sorgente. Ma da allenatore sapevo che la bellezza tenta, seduce, coinvolge. I sensi vogliono la loro parte. Napoli ti dà, ti insegna a godere, e tu non avverti il pericolo. Mettevo in guardia giocatori, famiglie, mogli, figlie.
Nessuno mi ha mai dato retta».
È l’anno degli ammutinamenti: dal calcio femminile spagnolo al consiglio dei saggi al Napoli. Lei, che ne subì uno, crede nell’autogestione?
«Credo nel rispetto dei ruoli. Nel gioco di squadra, nel noi. E non nelle interferenze da fuori. Prima degli allenamenti chiamavo tutti, spiegavo, e chiedevo: avete qualcosa da dire? Nessuno ha mai fiatato. Credo nel singolo al servizio del collettivo e viceversa. Il Napoli di Spalletti ha vinto così, ma è anche stato bravo a scoprire Kvaratskhelia e Osimhen. Ricordo a tutti che nel primo anno di Maradona, che segnò 14 gol, uno addirittura dal calcio d’angolo, il Napoli lottò per salvarsi. Credo nei fuoriclasse.
Tutti per uno e uno per tutti è un bel motto. Ma senza un bravo spadaccino come D’Artagnan non vai molto avanti. Il mio mito resta Andrés Iniesta, immenso nel vedere e fare gioco. Il campione deve essere messo in condizione di dare il suo meglio, non va sminuito, ma non può dettare legge. Bianchi e Maradona, ognuno al posto suo».
I tipi alla LeBron James però in America scelgono allenatori e compagni.
«Il fuoriclasse porta soldi, pubblico, sponsor. Ha tante qualità, è sottoposto a molte pressioni, deve avere l’ego smisurato dell’artista, ma se decide solo lui, sacrifica il resto. Quella deformazione non porterà vantaggi. Vorrà chi gli passa la palla in un certo modo, chi lo esalta senza la pretesa di finire sui giornali, chi fa il lavoro sporco e i recuperi per lui. Ma non lavorerà mai per migliorare i suoi limiti. E quando sta male, quando invecchia, come si fa? Continuano a dire che il calcio è un’azienda. Vero. Ma il peso del denaro è diventato troppo. Io ero abituato a fare con quello che avevo, se mancava il libero me lo costruivo, non lo ordinavo. Serve strada per fare strada, la gavetta è necessaria anche per i giocatori che vogliono passare in panchina. E serve la fame, oggi più dell’Africa che non del Sudamerica. Bernard Tapie, presidente del Marsiglia, che ho incontrato Parigi me lo aveva detto».
Cosa?
«Che i giocatori forti bisogna cercarli nelle banlieue, tra quelli che non hanno. Zidane da quella di La Castellane a Marsiglia, Mbappé viene dal ghetto di Bondy, Maradona da Villa Fiorito. Il calcio resta una passione di strada, è lì che ti formi. Tapie era una canaglia simpatica alla Belmondo. Era informatissimo, si documentava, sapeva anche il tipo di calzini che portavo. Gli vidi ordinare dalle tribune un cambio all’allenatore che aveva fatto uscire Desailly. Mi sentii a disagio, lui mi tranquillizzò: lei non avrebbe mai fatto quella stupidaggine».
Di festeggiare non se ne parla vero?
«Non l’ho fatto nemmeno nel giorno del mio matrimonio. Ho una sola tentazione quando vedo dei bambini giocare a pallone. Unirmi a loro. Poi mi dico: vergognati, abbi un po’ di dignità. Aveva ragione Diego: il calcio resta bello».