Corriere della Sera, 6 ottobre 2023
Intervista al nipote di Giuseppe Bottai
Scrive Giorgio Bocca: «L’unico a prendere un comando effettivo di uomini in Albania e a esercitarlo con dignità è Giuseppe Bottai, che si conferma a ogni occasione l’uomo migliore del regime».
«Il nonno fece quattro guerre, tutte da volontario: la prima guerra mondiale, l’Etiopia, l’Albania; poi combatté contro i tedeschi nella Legione straniera. Ci fu un tempo in cui era ricercato sia da Mussolini, che l’aveva condannato a morte, sia da Badoglio. Poi gli diedero l’ergastolo. Infine fu assolto».
Una vita da film.
«A Hollywood ne avrebbero fatto un kolossal. Io ne ho tratto un libro, mettendo insieme il suo diario e i racconti di sua figlia, mia madre Maria Grazia, di zia Viviana e di zio Bruno, già segretario generale del ministero degli Esteri».
Però Giuseppe Bottai fu anche uno squadrista tra i più duri. Nei giorni della marcia su Roma, i militari lo scongiurarono di non far passare le sue camicie nere per San Lorenzo. Bottai fu irremovibile. Negli scontri ci furono 13 morti, tutti socialisti.
«Era stato un ardito. Non sopportava le contestazioni che subivano gli ufficiali, i reduci. Ma considerò la violenza una necessità legata all’emergenza del biennio rosso. E si batté sempre contro l’ala più violenta del regime».
Nel 1922 il biennio rosso era finito, e i più forti erano i fascisti.
«Grazie a Italo Balbo, che li aveva organizzati con mano spietata. Ma anche Balbo cambiò. Da governatore della Libia si oppose alle leggi razziali e all’alleanza con Hitler. Con mio nonno erano molto amici. Erano tra i pochissimi a dare del tu al Duce».
Cosa raccontava Bottai di Mussolini?
«Dal primo incontro uscì profondamente affascinato. Mussolini era più piccolo di lui, ma riempiva la stanza con la sua presenza; e parlava con gli occhi. Nacque allora dentro mio nonno un sentimento di lealtà; anche se sul Duce ha poi cambiato radicalmente opinione. Pure sul piano umano».
Perché?
«Una volta a piazza di Siena gli presentò i figli bambini: Mussolini fu incapace di un gesto, di un buffetto. Era freddo, chiuso».
E nel tratto umano com’era invece Bottai?
«Non aveva nulla del gerarca. Dolce con i familiari, alla mano con i collaboratori. Sempre circondato da giovani».
Sulle sue riviste, «Critica Fascista» e «Primato», scrivevano in effetti i migliori letterati e artisti.
«Tra cui molti che sarebbero diventati di sinistra: Pasolini, Alvaro, Alicata, Michelangelo Antonioni, Pratolini, Alfonso Gatto, Zavattini, Argan, Vedova, Capogrossi, Mafai, Afro, Guttuso... A Critica Fascista era abbonato pure Gramsci. Sulle sue riviste esordirono Scalfari e Biagi».
In combattimento però era un duro.
«Nel 1918 lo fecero prigioniero. Era in colonna con i suoi uomini, scorse in terra una rivoltella abbandonata, la prese, la scaricò nella nuca dell’ufficiale austriaco, riuscì a fuggire. Però anche in trincea aveva pensieri gentili: nelle lettere alla sua Nelia infilava sempre un fiore. Divenne amico di un prete, che gli diede la prima comunione».
Prima comunione da ardito?
«Suo padre, Luigi Bottai, commerciante di vino a Monsummano, Pistoia, era ateo e mazziniano. Mio nonno fu battezzato solo perché lo impose la balia: “Io una bestia non la allatto!”. Pur essendo nato e morto a Roma parlò sempre con accento toscano, mia mamma lo chiamava babbo».
Nel 1921 fu eletto deputato.
«Dovette lasciare la Camera perché non aveva ancora trent’anni».
Nel 1924 condannò l’omicidio di Matteotti.
«Lo definì il più efferato, inumano e stupido delitto che si potesse commettere. L’ala radicale del fascismo gli fu sempre ostile; e talora lo stesso Mussolini. Mise tutto se stesso nel progetto delle corporazioni, ma il Duce gli tolse il ministero e lo prese per sé».
Bottai divenne governatore di Roma.
«Aprì via della Conciliazione, corso Rinascimento, via delle Botteghe Oscure. Lanciò il progetto dell’Eur, fece l’ospedale Forlanini».
E partì volontario per l’Etiopia.
«Fu l’unico gerarca a chiedere un posto di combattimento, ebbe una medaglia al valore dopo la presa dell’Amba Aradam. Al ritorno andò a parlare con il Duce, gli propose di allentare la morsa del regime, di ampliare le libertà».
E Mussolini?
«Non lo prese sul serio. Fu gelido: “Sono contento di te come soldato e come fascista. E ora passiamo al lavoro”. Il nonno commentò che il Duce era diventato un pezzo di ghiaccio, la statua di se stesso. Per lui fu un dolore terribile. Ma fu anche l’errore più grave».
Perché?
«Avrebbe dovuto prendere definitivamente le distanze da Mussolini, e si sarebbe risparmiato altre sofferenze. Invece si trovò a recitare due parti in commedia».
Bottai era ministro dell’Educazione nazionale quando con le leggi razziali furono cacciati insegnanti e scolari ebrei. Una macchia terribile.
«Ma non era antisemita. Erano ebrei alcuni tra i suoi collaboratori e tra gli artisti che chiamò al premio Bergamo, da Cagli a Levi. Farinacci e gli altri suoi nemici dicevano che fosse ebreo lui stesso; Tevere, il giornale di Interlandi e Almirante, lo chiamava “Peppino il giudiolo”. Hitler vietò a Bernhard Rust, ministro dell’Istruzione tedesco, di incontrarlo. Lui incontrò invece Aldo Ascoli, vicepresidente dell’Unione delle comunità israelitiche, che scrisse: “Bottai mi guarda tenendomi le due mani tra le sue, ha un po’ di lucido negli occhi e dice: bisogna essere forti, resistere, non lasciarsi andare”».
Renzo De Felice la definisce «una delle testimonianze più impressionanti dell’ipocrisia e della doppiezza di certi gerarchi».
«Ma l’israeliano Meir Michaelis, docente presso l’università ebraica di Gerusalemme, scrive: “Escludo che Bottai sia stato promotore della campagna razziale… Si trattava di condurre la politica razziale all’italiana e non alla tedesca”».
Resta il fatto che duecento studenti universitari, mille liceali, 4.500 scolari dovettero lasciare la scuola.
«Cosa doveva fare il nonno? Lasciare il ministero a un uomo di Farinacci, a un estremista, a un antisemita? Inoltre ottenne che in alcune città gli ebrei potessero avere corsi scolastici finanziati dallo Stato».
Come mai Bottai non fece la guerra di Spagna?
«Era contrario. Quando Montanelli ironizzò sulla presa di Santander...».
«È stata una marcia con un unico nemico, il caldo...».
«... Fu radiato dall’ordine, e il nonno lo protesse, lo mandò a fare il direttore dell’istituto italiano di cultura a Tallinn. Era contrario anche all’alleanza con Hitler. Salvò migliaia di quadri e statue dai bombardamenti e dalle mire naziste, grazie a donne come Fernanda Wittgens e Palma Bucarelli. E a uomini come Pasquale Rotondi e Ignazio Cucci, padre di Italo».
Come reagì Bottai alla dichiarazione di guerra?
«Il 10 giugno 1940 i suoi figli volevano assistere al discorso del Duce da una terrazza di fronte a Palazzo Venezia. Lui e Nelia dissero: “L’Italia sta entrando in un conflitto mondiale, e non c’è niente da festeggiare”».
In Albania legò con gli alpini della Julia.
«Scrisse: colonnello mi aveva fatto il re; comandante mi avevano fatto gli alpini, che solo loro possono fare di un gallonato uno che comanda».
Arrivò la falsa notizia che Bottai era morto.
«E il Duce non diede segni di dispiacere. Come non li diede alla notizia della morte di Balbo, che invece era vera. Mio nonno invece ne soffrì moltissimo».
Nel 1943 dovette lasciare il ministero.
«Era andato dal Duce a scongiurarlo di recedere dall’alleanza con la Germania, ma lui non volle sentire ragioni: “Ad agosto la situazione volgerà a nostro favore!”. Il nonno apprese il siluramento dalla radio. Tutti i dipendenti del ministero andarono a salutarlo. Ce n’era uno famoso perché lavorava pure di notte, lui gli strinse la mano. Si chiamava Renato Moro. Anni dopo suo figlio Aldo verrà a rappresentare il governo al funerale».
Siamo al 25 luglio 1943.
«Nonno ne fu protagonista con Dino Grandi, di cui era amico anche se lo prendeva in giro: “Da contadino a conte Dino” gli diceva. Andarono a Palazzo Venezia con una bomba a mano in tasca, per difendersi. Invece vinsero: a favore del Duce votarono in 7; contro il Duce in 19».
Tra loro ci fu pure Ciano.
«Disse che tra la patria e il suocero non poteva esitare; e pagò quella firma con la vita».
Però Bottai soffrì alla notizia dell’arresto di Mussolini.
«Non doveva essere quello l’esito del 25 luglio. Mio nonno pensava che il Duce sarebbe stato affiancato dal re e dai ministri nella conduzione della guerra. L’idea era portare Mussolini a lasciare Hitler e ad arrendersi agli americani. Il re andò oltre, affidandosi a Badoglio, che mio nonno non stimava».
E Badoglio lo fece arrestare.
«Quando arrivarono i carabinieri mia madre gli si strinse: “No, babbo, no!”. A Regina Coeli rilesse Balzac. Il capo della polizia, Senise, lo fece liberare il 12 settembre, prima che finisse nelle mani dei nazisti».
Dove si nascose?
«Cambiò molti nascondigli. Un portinaio che era stato cameriere a casa sua gli trovò una stanzetta a Palazzo Sciarra, vicino alla fontana di Trevi. Fu decisiva Annita Ferrari, la responsabile delle scuole cattoliche, che fece da tramite con Montini, il futuro Papa».
Suo nonno andò nella Legione straniera.
«Altri gerarchi fuggivano in Portogallo e in Sud America. Lui voleva combattere i nazisti, ma non se la sentiva di sparare su altri italiani. Un giorno lesse un annuncio su un giornale: a Napoli la Francia reclutava legionari».
Come ci arrivò?
«Con un altro colpo di fortuna: il capo dei servizi di intelligence del corpo di spedizione francese in Italia, capitano Serge Parisot, era figlio del generale che aveva firmato l’armistizio del 1940, e che il nonno aveva protetto dopo la caduta di Vichy. Il capitano lo incontrò in un convento di gesuiti: nonno era vestito da prete. Lo portarono ad Algeri».
Per l’addestramento?
«Gli chiesero come mai si fosse arruolato. Non rispose. “Questione di donne” commentò l’ufficiale che lo interrogava. Tanti andavano nella Legione straniera per dimenticare un amore infelice. Russi, polacchi, ungheresi, armeni, vietnamiti... Gli diedero il nome di Andrea Battaglia. Sbarcò in Provenza, combatté in Alsazia, forzò con gli altri la linea Sigfrido, passò il Reno, fino alla foresta nera. Non ha mai raccontato nulla: aveva la consegna del silenzio. Scrisse solo che non gli piaceva il modo in cui venivano svaligiate le case dei tedeschi».
Nel frattempo in Italia fu coinvolto nel processo ai gerarchi e condannato all’ergastolo.
«Ma poi fu assolto. Era tornato in Algeria, per reprimere le prime rivolte per l’indipendenza, il che gli dava grande angoscia; ma per fortuna la ribellione era già stata soffocata. Gli ricambiarono il nome in Andres-Georges Jacquier. La notizia dell’assoluzione gli giunse mentre era in un villaggio marocchino di confine, Oujda, dove era stato assegnato come bibliotecario. Tornò a Roma nel 1948, felice per la vittoria di De Gasperi».
Le foto dell’epoca ritraggono suo nonno in una bella casa, con una splendida terrazza. Si era arricchito?
«Aveva passato una vita in Parlamento, era professore universitario, scriveva sui giornali. Ma non aveva rubato. E non era interessato al lusso».
Come reagì alla notizia di Piazzale Loreto?
«Con orrore e compassione per la fine di Mussolini, e per il modo di quella fine».
Eppure l’aveva definito «capobanda».
«Per mio nonno il fascismo era finito il 25 luglio; e tra il fascismo e la patria lui aveva scelto la patria. Il Mussolini di Salò non aveva alcuna legittimità».
Bottai sarà stato l’uomo migliore del regime; ma era pur sempre un regime.
«Certo. Però in un regime la vera opposizione è sempre quella interna».
Scrisse: «Non potendomi attribuire delitti, hanno convertito in delitti gli atti della mia vita di cui non cesserò mai di essere orgoglioso». Ma come pensava andasse a finire? Nel fascismo è insita l’idea della guerra.
«Il fascismo non era diventato quello che mio nonno sognava: un rinnovamento dell’Italia e della classe dirigente. La pensava così anche suo figlio Bruno. Una volta, ero ragazzino, dissi una battuta in difesa del regime, e mio zio fu severissimo: “Fu una stagione nera, una tragedia da migliaia di morti!”».
Con il Msi che rapporti ebbe suo nonno?
«Non ci credeva. Ma quando alcuni giovinastri lo presero a schiaffi per strada chiamandolo traditore, esponenti del Msi lo difesero».
Ai tempi di Rutelli si pensò di dedicargli un via, ma la comunità ebraica si oppose.
«Una parte della comunità ebraica. Tullia Zevi mandò un telegramma di solidarietà a zio Bruno, che però era contrario a via Bottai: temeva ne sarebbero nate contestazioni, che avrebbero certo amareggiato il nonno».
Lei non l’ha mai conosciuto.
«Sono nato pochi mesi dopo la sua morte, a 63 anni, per il Parkinson. Un vero peccato, come nipote e come giornalista».
Lei Angelo è figlio di un ufficiale, Vincenzo Polimeno. Come mai porta anche il cognome del nonno?
«Me lo chiese mia madre, prima di andarsene. Adorava il babbo, e non voleva che il nome Bottai andasse perduto».