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 2023  ottobre 05 Giovedì calendario

Scoperte nuove lettere di Cavour

La politica come missione. Lo sguardo sempre rivolto al futuro. La Provvidenza che gli affida il compito di unire l’Italia. È il 2 dicembre 1858 quando Camillo Benso Conte di Cavour, probabilmente dal suo studio privato delle Segreterie di Stato - oggi Prefettura di Torino - prende in mano la penna, la intinge nell’inchiostro, e comincia a scrivere una lettera indirizzata a Giacinto Corio, il gerente della sua tenuta di Leri, nel Vercellese. La carta è intestata con le iniziali «CC», sormontate dalla corona comitale. È una missiva privata, che riguarda vicende gestionali agricole. Emerge però qualcosa di interessante nella chiusura, quando nei saluti il futuro primo Presidente del Consiglio italiano scrive: «il più vivo dei miei desideri è di poter andare a finire i miei giorni a Leri con lei e la sua famiglia dopo però di avere compiuto la missione che la Provvidenza mi ha affidato».
Lo scritto fa parte di cinque documenti autografi, due biglietti e tre lettere, assolutamente inediti, che sono spuntati, a inizio agosto, dagli scaffali dell’Archivio storico della Città di Vercelli. «Stavo facendo la verifica del contenuto di una serie archivistica - spiega la direttrice, Alessandra Cesare - quando mi è capitato tra le mani, a sorpresa, il fascicolo: è stata una scoperta casuale. Dai dati in nostro possesso il materiale è stato depositato nell’Archivio nel 1929 e mai consultato». Le lettere confluiranno in una ricerca pubblicata per il Centro Studi Piemontesi, nella prossima primavera, dalla storica del Risorgimento Rosanna Roccia, massima esperta italiana dell’epistolario cavouriano.
Le lettere note di Cavour sono oltre 15.000. L’epistolario si compone già di 21 volumi, raccolti in 34 tomi, pubblicati dal 1962 al 2012 dalla casa editrice Olschki di Firenze su un progetto iniziale di Luigi Einaudi. Impresa portata a termine proprio da Rosanna Roccia dopo aver raccolto l’eredità del suo maestro Carlo Pischedda. «Un ritrovamento importante - spiega la studiosa - perché sono scritti assolutamente inediti e perché redatti in un momento cruciale della storia risorgimentale e personale dello stesso Cavour».
Giacinto Corio è l’agronomo che cura gli interessi agricoli del Conte nella sua tenuta di Leri, 900 ettari nel cuore del Piemonte, ai piedi delle colline del Monferrato. È uno dei suoi più stretti collaboratori. Leri è, per Cavour, il «buen ritiro», il luogo del riposo nel tempo libero dagli affari politici torinesi. Una proprietà che eredita dal padre (a sua volta ricevuta da Camillo Borghese ai tempi della dominazione napoleonica) e che lo statista ammoderna con tecnologie per l’epoca all’avanguardia. Per capire il legame tra i due basta citare che, in una delle lettere ritrovate, Corio chiede a Cavour di fare da padrino al suo primo nipote, figlio del primogenito Carlo, lungamente atteso, battezzandolo con il nome di Camillo.
Ma sono le date ad attirare l’attenzione. Il 1858 è l’anno della svolta. Cavour nel luglio di quell’anno incassa a Plombières da Napoleone III gli accordi che possono aprire finalmente al Regno di Sardegna le porte del Ticino. L’anno dopo ci saranno le battaglie di Solferino e di San Martino, con l’Impero francese che affianca il Piemonte. Si rende conto che la guerra con l’Austria è a un passo. Per capirci: appena un mese dopo, il 10 gennaio 1859, Vittorio Emanuele II entra nell’Aula del Parlamento Subalpino e pronuncia il discorso del «grido di dolore», una sorta di «il dado è tratto» per la Seconda guerra d’Indipendenza. Nelle stesse settimane in cui si compie lo scambio epistolare con Giacinto Corio riguardanti vicende agricole e gestionali, Cavour vive in pieno proprio quella «missione che la Provvidenza gli ha affidato». È il climax della sua politica strategica. Non tanto quella di fare l’Italia, ma di riconquistare quanto si è perduto nel 1849, strappando il Regno Lombardo-Veneto all’Austria e guardare verso gli Stati dell’Italia centrale, ormai entrati nelle sue mire e nell’orbita del suo progetto politico.
Le altre due lettere ritrovate sono interlocutorie rispetto alla terza, più recente (gli altri due biglietti sono decisamente di minore importanza). Il 18 gennaio 1857 è la data della prima. Nella missiva si parla del nipotino appena nato. Cavour risponde a Corio positivamente riguardo la proposta di fare da padrino e chiedendo di aspettare una data idonea «essendo prossimo all’apertura del Parlamento». La seconda riporta il 17 novembre 1858. Corio si era lamentato della gestione finanziaria su Leri compiuta da Martino Tosco, segretario di Casa Cavour. Lo statista gli risponde quasi stizzito: «Se i conti di Tosco non gli garbano, li faccia esaminare da chi più gli piace». E ancora: «sono osservazioni moleste e disgustose». Infine, fa una proposta: «la pregherei di venire a Torino con il suo primogenito (sempre Carlo, Ndr)». Cavour lo chiama a rapporto per parlarne, ma il suo nervosismo è probabilmente dovuto al fatto che il Conte ha altro a cui pensare. Del resto, in un momento così delicato, le lamentele dei suoi collaboratori sono gli ultimi problemi da affrontare.
Infine, la lettera del dicembre 1858. Prima dei saluti iniziali, dal testo, capiamo che il problema dei conti sia stato superato con una successiva lettera di Corio, che ipotizziamo sia stata rassicurante e pacificatrice. Cavour rilancia: «Visto che non è più necessario di venire a Torino, alla sua schiettezza risponderò con schiettezza: mi permetta di farle una proposta, che è anche un consiglio. Ella dovrebbe associare suo figlio primogenito al nostro contratto, oppure farsi aiutare da lui. Ho in lui molta fiducia». Cavour comprende forse che Corio, già ultrasessantenne, ha fatto il suo tempo, ed è giunta l’ora di un ricambio generazionale. «Oggi noi sappiamo che quel consiglio non è stato attuato - spiega Roccia - perché non risulta dai documenti, almeno non ufficialmente».
Trovare nuove lettere di Cavour, oggi, permette anche di scoprire sfumature della storia poco note. Una possibilità che difficilmente potranno sviluppare gli storici del futuro per studiare il nostro presente, in quanto e-mail o messaggi via WhattsApp e Telegram (sempre più usati dai politici nelle fasi interlocutorie degli accordi, come per la vita privata) scompariranno nel nulla.