il Giornale, 5 ottobre 2023
Tutto Morandi
Giorgio Morandi si prende finalmente la rivincita. S’intitola «Morandi 1890-1964», con gli anni di nascita e di morte dell’artista bolognese, la monografica curata da Maria Cristina Bandera al piano nobile di Palazzo Reale di Milano, visitabile da oggi al 4 febbraio, e ci mostra un Morandi campione del cambiamento. «Altro che noioso e monotono: è stato un grande sperimentatore, un uomo votato alla ricerca», dice Bandera, una vita passata a studiare ogni granello di polvere posato sulle bottiglie di Morandi. Lo afferma mentre si muove rapida tra una sala e l’altra della mostra: 34 le sezioni allestite, 120 le opere esposte per ripercorrere la produzione dell’artista, cinquant’anni di indefessa attività dal 1913 al 1963.
Questa è una mostra-monstre che in teoria avrebbe tutte le carte in regola per annoiare: vediamo perlopiù nature morte, qualche paesaggio, qualche interno e poi vasi, fiori, conchiglie e bottiglie, bottiglie e ancora bottiglie. E invece, complice il notevole sforzo della produzione che ha messo insieme Palazzo Reale, Civita, 24 Ore Cultura con la collaborazione del Museo Morandi di Bologna per ottenere prestiti notevoli (impossibile elencarli tutti: si va dai Musei Vaticani alla Camera dei deputati), l’esposizione risulta ipnotica. Ed è strano perché ci si muove dentro un allestimento sobrio la cui unica concessione a Instagram è una videoinstallazione che ripropone la camera-studio di via Fondazza a Bologna, oggi Museo Morandi, dove l’artista visse e lavorò fino alla fine. In vita non gli mancarono premi e riconoscimenti (già nel ’16 il MoMa di New York comprò una sua tela, nel ’30 gli fu assegnata dall’Accademia di Bologna la cattedra di tecnica dell’incisione, di cui era considerato maestro assoluto, nel ’48 fu premiato alla Biennale di Venezia), eppure a Morandi per creare bastava la cameretta di casa, dove viveva con la madre e le sorelle. Che questa monografica-omaggio sia stata realizzata a Milano, a trent’anni dall’ultima rassegna a lui dedicata, non è casuale: sotto la Madonnina vissero i suoi principali collezionisti (Scheiwiller, Jesi, Boschi di Stefano), e la Galleria del Milione lo sostenne parecchio.
Il percorso espositivo comincia da «Morandi prima di Morandi», con un’infilata di lavori giovanili, tra i pochi da lui non distrutti, che raccontano di un artista capace di cogliere le novità da Parigi (la rivoluzione plastica di Cézanne, il cubismo di Picasso e di Braque) e il verbo futurista, tenendo ben a mente la lezione dei classici (Giotto, Piero della Francesca). Da qui Morandi comincia a costruire il suo lessico figurativo, asciutto e severo. Nei primi anni disegna delle sensuali Bagnanti (una delle sorprese in mostra), ma è un’eccezione: non è la figura umana a interessarlo. In «operosa solitudine» si avvia verso la stagione metafisica ben rappresentata in mostra dalle struggenti nature morte in prestito da Brera, dal Museo del Novecento di Milano e dalla Fondazione Magnani Rocca: sono le camere incantate di Morandi, dove gli oggetti appaiono sospesi, svuotati della loro funzione, pure geometrie e macchie di colore (ocra, bianco, nero).
Nel 1920, folgorato da Caravaggio, continua a ritrarre bottiglie e fiori, ma non sono gli stessi di prima: con una pittura di sempre maggior peso specifico (esistenziale, quasi filosofica), cerca altro. Poi cambia ancora: getta l’occhio fuori casa e si dedica ai paesaggi. Gli anni Trenta ci propongono una straordinaria serie di lavori dall’effetto straniante: siamo lontani o siamo vicini al soggetto? Giorgio Morandi si diverte a lasciarci senza risposta e nei decenni successivi si muove verso una più decisa astrazione delle forme, accompagnata da timbri di colore sempre più ridotti, quasi polverizzati. Guai a definirlo ripetitivo: la reiterazione è il suo metodo di lavoro, lo strumento di scavo del reale. La mostra si chiude con un acquerello prestato dalla Fondazione Cini: pochi tratti di matita nera, leggeri come un soffio, plasmano oggetti che – diceva Roberto Longhi – «sono senza più nome». Dissolvendo il suo e il nostro quotidiano, Giorgio Morandi ci ammonisce: «Quello che importa è toccare il fondo, l’essenza delle cose».