il Giornale, 3 ottobre 2023
«Borsellino voleva fare arrestare l’allora procuratore Pietro Giammanco». Le ultime rivelazione sulla morte del magistrato
Altro che la fantomatica trattativa Stato-Mafia. Inesorabilmente, a più di trent’anni di distanza, tasselli di verità vanno al loro posto. E dicono che l’uccisione di Paolo Borsellino e della sua scorta non fu affatto il favore di Cosa Nostra a chissà quali poteri occulti dello Stato ma un’operazione militare realizzata con un obiettivo specifico: impedire le indagini sul dossier Mafia-appalti, insabbiato dai vertici della procura di Palermo. Il grande capo della procura di Palermo, Pietro Giammanco, era talmente coinvolto nell’opera di insabbiamento che avrebbe dovuto essere arrestato. Invece alle 16,58 del 16 luglio 1992, in via D’Amelio, l’autobomba di Cosa Nostra massacrò Borsellino e i suoi agenti. E Giammanco rimase al suo posto. Sono parole tremende, quelle pronunciate ieri davanti alla commissione parlamentare Antimafia da Giovanni Trizzino, avvocato palermitano. A renderle pesanti c’è il fatto che provengono da un uomo che storia e protagonisti li ha studiati a fondo. Trizzino, marito di Lucia Borsellino, è l’avvocato di tutta la famiglia del magistrato ucciso, compresa la figlia Fiammetta, che alla leggenda della trattativa non ha mai creduto, e che ha sempre indicato la radice della morte del padre in quell’inchiesta sugli appalti mafiosi, sulle contaminazioni tra imprenditoria del nord – Ferruzzi in testa – e capitali di Cosa Nostra, che andava fermata ad ogni costo. Spiega Trizzino: «A chiedere a Riina di accelerare la morte di Borsellino sono la famiglia di Passo di Rigano che faceva capo ai Buscemi, che nell’archiviazione del dossier mafia-appalti vengono liquidati con tre parole». I Buscemi sapevano che Borsellino sapeva: «Il 25 giugno 1992 a Casa Professa Borsellino rilascia il suo testamento spirituale: firma la sua condanna a morte, dicendo: Io sono testimone e so cose che devo riferire all’autorità giudiziaria». È in quel contesto, è studiando il dossier, che Borsellino si era convinto che c’erano responsabilità precise dei vertici della procura di Palermo: «Borsellino – dice Trizzino – voleva arrestare o fare arrestare l’allora procuratore Pietro Giammanco» perché «aveva scoperto qualcosa di tremendo». Giammanco, lo stesso che quando i carabinieri del Ros indicarono in Borsellino il bersaglio di un progetto di attentato non avvisò nemmeno il collega. Giammanco è morto da cinque anni, portandosi dietro ombre e segreti di quella stagione. Ma le rivelazioni di Trizzino mettono al posto giusto molti passaggi. A partire dal ruolo dei vertici del Ros, gli stessi che sono stati portati sotto processo con accuse inverosimili per la presunta trattativa con la mafia, e che sono stati assolti solo dopo anni. Proprio quei vertici, a partire dal comandante Mario Mori, erano il punto di riferimento privilegiato di Borsellino. Al punto che fu a loro che il magistrato si rivolse quando scoprì il ruolo del procuratore di Palermo: «Borsellino ha organizzato un incontro segreto con l’allora colonnello del Ros dei carabinieri Mori e il capitano De Donno, il 25 giugno del 1992, perché aveva scoperto qualcosa tremendo sul conto del suo capo. Si parla di contrasti e circostanze talmente gravi che lo hanno convinto che quel suo capo era un infedele». A decidere la strage fu poi Totò Riina, «se ne assunse in proprio la responsabilità di via D’Amelio, si comportò da vero dittatore». Ma il movente va ricercato lì, in quel dossier insabbiato. D’altronde anche Matteo Messina Denaro, prima di morire, lo ha detto ai pm di Palermo: «Ma voi pensate davvero che Falcone è morto perché ci aveva dato quindici ergastoli?».