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 2023  ottobre 03 Martedì calendario

Intervista a Sveva Casati Modignani

Sveva Casati Modignani, «la vita è bella, nonostante», come dice il nuovo libro?
«Non mi lamento, ho 85 anni, una vita piena e un gruppo di amiche della mia età. Ci chiamiamo “ragazze” e andiamo a cena fuori, bevendo del buon vino rosso».
Le piace la compagnia dei giovani?
«Mi sento con gli amici dei miei nipoti Luna e Lapo. Vivono un mondo meno bello del mio alla loro età, l’Italia piena di energia del Dopoguerra. Dicono che dovranno trasferirsi in Australia per lavorare. Ma a loro invidio la libertà».
Lei non è stata libera?
«Negli anni Cinquanta una donna che diceva vado a vivere con il mio uomo sarebbe stata linciata. Ermellina, una delle protagoniste del libro, ha patito proprio quel mondo lì, che si nutriva di ipocrisie».
Cosa le vietavano?
«Scegliere cosa fare, vivere la vita fregandosene degli altri. La classe piccolo borghese, di cui faccio parte da sempre, era legata a questi schemi: dovevi arrivare vergine al matrimonio e se non lo eri succedeva un dramma. Una perbene non si truccava, il rossetto era peccato».
Lei era perbene?
«Le mie amiche erano tutte così, l’unica permale ero io. Mi ribellavo a quella ipocrisia vittoriana e quindi erano lotte continue. Una vita difficile».
Un ricordo da piccola.
«Il mio primo tentativo di suicidio a 3 anni. Ero nel letto dei nonni, ho aperto il comodino e c’era una boccetta color ambra, con dentro il chinino di Stato. Le pastiglie erano avvolte in una glassa rosa. Ne ho prese una manciata, le ho messe in bocca. Mi hanno fatto la lavanda gastrica».
Perché si voleva suicidare a 3 anni?
«Da bambina corteggiavo la morte, mi sembrava una cosa misteriosa, da approfondire. Poi ci sono stati i semi dell’olio di ricino, a 10 anni: buonissimi. Lì ho capito che le cose buone ti fanno male».
Ha avuto un rapporto difficile con sua madre.
«Vedendo che avevo fatto della scrittura un mestiere mi diceva: “Ma tu credi di lavorare? Questo non è un lavoro”. Andavo con la torcia in cantina a leggere».
Cosa voleva che facesse?
«La suora o in secondo ordine la magliaia: sarei stata in casa, mi avrebbero comperato la macchina per lavorare».
Questo vulnus affettivo l’ha condizionata?
«Moltissimo. Una volta da ragazzina l’ho presa sottobraccio e lei mi ha detto: “Non ti stai accorgendo che con il braccio mi sfiori il seno”? Mi sono vergognata di quel mio gesto affettuoso».
Suo figlio Nicola lo ha abbracciato?
«Finché ho potuto, anche se il tipo di educazione ricevuta mi ha fatto male anche in questo: non sono stata mai una madre equilibrata, ero amorevole ma a volte agivo d’imperio: “Basta, si fa così!”»
«La vita è bella, nonostante» è un romanzo con al centro un gruppo di donne forti e moderne. È femminista?
«No, quando scrivo non ho mai messaggi per nessuno. C’è solo il piacere di raccontare, io stessa voglio vedere come va a finire».
Nel libro gli uomini muoiono...
«È il potere dello scrittore: quando qualcuno non ti serve più, lo uccidi».
Maria Sole scopre di avere un compagno gay.
«Ho amici gay che hanno avuto una vita difficile. Maria Sole si incazza quando lo scopre, poi capisce, è una donna d’oggi. Ai miei tempi lo avrebbe denunciato al vescovo...»
Lei che moglie è stata?
«Mio marito si è ammalato di Parkinson e l’ho sempre assistito. Avevo 3 badanti, ma voleva me. Ero io che dovevo fargli la barba, la doccia, imboccarlo. Sono stati anni molto duri».

Monsignor Paglia sul Corriere si è pronunciato contro la vecchiaia in RSA.
«Mio marito voleva stare a casa e così ho fatto. I medici mi sconsigliavano, ma oggi non ho rimorsi».
I suoi libri si ispirano a fatti veri: Il Falco è Leonardo Del Vecchio?
«Certo e ho saputo della sua grande gioia nel leggerlo. Francesco Milleri mi ha invitato a pranzo e mi ha svelato che Del Vecchio diceva: “Avrei dovuto imparare anche io l’inglese con la Molly, invece che cretino, sono andato a Londra!” Si riferiva al protagonista che aveva un’amante inglese. Oggi in Luxottica tutti lo ricordano come Il Falco».
Altri libri e riferimenti?
«Il Mercante dei sogni è Attilio Ventura e la sua donna Francesca è Francesca Vacca Agusta, che conoscevo, un bel personaggio letterario».
Cosa aveva di speciale Francesca nella realtà?
«Il cuore, la generosità e un senso di insoddisfazione che la perseguitava. Purtroppo è finita malamente, a sniffare. Vado a prendere una sigaretta che ho voglia di fumare».
Quante sigarette fuma?
«Una decina al giorno».
E beve e mangia?
«Colazione, pranzo, merenda e cena. Prima di dormire una crostatina di marmellata con un deca americano».

Dimostra 20 anni di meno.
«Non sono rifatta. Alle mie amiche dico: “siete sceme, ma perché vi riducete così”».
Si sente una sciura?
«Per nulla, anzi mi fanno ridere. In casa li chiamavamo “voler ma non posso”. Le riconoscevi dalla pelliccia, poi gratta gratta scoprivi che erano morti di fame...».
Eppure nei suoi romanzi c’è sempre il bel mondo.
«Perché l’ho conosciuto. Ma ogni volta che vedevo quelle case con i portasigarette in oro massiccio ero felice di tornare nella mia».
Frequentava i salotti?
«Andavo da Anna Bonomi Bolchini e dalla Enrichetta Invernizzi. Ecco, loro ostentavano: vedevo brillanti come noci e pensavo: “Come si fa a portare al collo una casa di 11 piani?”».
In quanto tempo scrive?
«In sei mesi, ma prima ci lavoro un anno nella mia testa. Scrivo un paio d’ore al giorno, tre al pomeriggio, alle 18 stacco come alle Poste».
Ha avuto onorificenze?
«L’Ambrogino d’Oro? No, a Milano non mi filano...».
Ha venduto 12 milioni di copie regalando leggerezza.
«Per questo il mio lavoro ha un senso. Una suorina entrò a una mia presentazione con due borse dell’Esselunga piene di libri da firmare: erano per le sue malate oncologiche: “Non sa quanto bene facciano alle donne che curo”».
Le piace Milano?
«Non più, ma che c’entrano i grattacieli? Milano è una città dai tetti rossi».
Mi dica una cosa in milanese.
«Süca e melün han la sua stagiun, ogni cosa ha il suo tempo».