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 2023  ottobre 03 Martedì calendario

Quando l’auto faceva l’economia


L’automobile è stata per l’economia italiana, e non solo, il primo vero volano di crescita industriale. Di modernizzazione del Paese. La fabbrica del Novecento è per sua natura pensata come fabbrica che produce automobili. E con le auto, la filiera collegata alla grande rivoluzione meccanica. La ricerca di soluzioni tecnologiche e la necessità di riduzione delle emissioni (avvertita molto in ritardo) per far fronte all’emergenza climatica, lo hanno reso un settore che continua a conservare un alto tasso di innovazione. Per certi versi i governi di tutto il mondo lo hanno sempre considerato un settore strategico per garantire sviluppo, lavoro, persino coesione sociale. La prova? Nella grande crisi Obama non esitò a salvare un simbolo americano come Chrysler diventandone azionista. Il governo francese è azionista di Renault e di Stellantis, ad esempio. La potenza industriale di un Paese si misurava anche dal numero di auto prodotte nei suoi stabilimenti. Per questo il declino della presenza industriale di quella che una volta era la Fiat, che poi è diventata Fca e che ora è una parte del gruppo francese, Stellantis, è la fotografia di una difficoltà che sta avendo un impatto dirompente. Solo qualche numero: nel 1950 il parco circolante era di 340 mila veicoli, nel 1969 eravamo arrivati a 9 milioni. In mezzo c’è stato il miracolo economico, la ricostruzione del Paese, la corsa delle esportazioni, la crescita della classe media.
Q uando al salone di Ginevra si presentò la 600 tutti la accolsero come la «nuova utilitaria» italiana. Tempi d’oro, in un mercato che ha visto apparire sulla scena nuovi protagonisti, dai giganti giapponesi come Toyota ai coreani e ora i cinesi. L’Italia negli anni Sessanta rappresentava il 6 per cento della produzione mondiale e un quinto di tutta la produzione europea. Era un leader. Bisogna tornare indietro di oltre trent’anni, al 1989, per vedere il massimo mai raggiunto: circa due milioni di auto prodotte in Italia. Adesso si arriva a malapena a 400 mila automobili. Dentro questo numero è racchiusa una crisi profonda, della quale quello che sta accadendo alla Marelli di Crevalcore, è un segnale forte. Come molti altri, per la verità, arrivati in questi anni e sottovalutati soprattutto dalla politica. Certo, la componentistica italiana ha trovato strade alternative per sopravvivere e diventare ancora più competitiva, diventando uno dei principali fornitori dell’industria tedesca, da Mercedes a Bmw a Volkswagen. Ma questo punto di forza, ora che Berlino è entrata in recessione bisognerà trovare rapidamente un modo di sostenerlo. La crisi dei chip e delle materie prime ha mostrato tutta la vulnerabilità di questo settore.
Ma in un tempo così complicato, nel quale la strategia più diffusa è quella di accorciare le filiere, riportare le produzioni dentro i confini, tutto può diventare ancora più difficile. E allora viene in mente il progetto di Fabbrica Italia messo a punto da Sergio Marchionne, che non trovò nel Paese l’accoglienza che avrebbe consentito forse di evitare questo declino. La strada delle fusioni per i costruttori è diventata necessaria, naturalmente. Dimensioni obbligate per far fronte agli investimenti. E così arriviamo alla scelta della cassaforte Exor, guidata da John Elkann, di stringere l’alleanza con il gruppo Psa. Alleanza che però si è trasformata in poco tempo in qualcosa di diverso, in una vendita di fatto: un arretramento della presenza italiana con il rafforzamento degli stabilimenti francesi. Eppure, negli anni i governi che si sono succeduti a Palazzo Chigi hanno garantito sostegno agli investimenti, incentivi per l’acquisto, risorse per gestire le crisi attraverso gli ammortizzatori sociali. Ultimo intervento d’aiuto, durante la pandemia, la garanzia pubblica su un prestito da 6 miliardi di euro, poi rimborsato da Stellantis. A pensarci bene è incredibile che la politica non abbia colto i segnali di questa progressiva ritirata dal Paese. A luglio l’amministratore delegato di Stellantis, Carlos Tavares, ha incontrato il ministro delle Imprese, Adolfo Urso, con l’impegno di arrivare a un milione di veicoli prodotti. Vuol dire più che raddoppiare il livello attuale. È una cosa realistica? Forse no. Certo il punto dell’industria made in Italy è lì. Come ridare centralità all’industria legata all’auto, che sta attraversando con la rivoluzione elettrica la più grande trasformazione mai affrontata in così breve tempo. Come ricostruire e riconvertire quella filiera. Come consentire che la bilancia degli stabilimenti e degli investimenti cominci a pendere un po’ di più verso l’Italia, da Mirafiori a Pomigliano d’Arco, e un po’ di meno verso la Francia. Magari cominciando dal chiedere di poter avere in Italia più modelli nuovi da produrre di quanto non sia previsto finora dai piani. Di ragionare insieme alle Università, ai Politecnici, per riprendere un po’ di quella forza che diede vita al miracolo. O almeno trovare un modo perché il declino non diventi inarrestabile. Non dovremmo rassegnarci al ruolo di fornitori di altri dopo oltre cento anni di grande tradizione italiana dell’auto.