La Stampa, 3 ottobre 2023
Tutti i nemici della presidente
Li indica senza mai nominarli. «I soliti noti» che ieri si sono rivelati essere «altri Stati» e «un pezzo d’Italia», e altre volte erano «certi ambienti europei» o più nel dettaglio «la sinistra» o «forze politiche nazionali ed europee». Sono i nemici individuati da Giorgia Meloni. Ormai uno al giorno, uno dopo l’altro. Offre indizi, abbozza identikit, disegna sagome che senza troppi sforzi di fantasia diventano poi volti, nomi e cognomi.
È il tic dell’underdog che vive in un’eterna opposizione, di chi usa il «voi», plurale e generico, per ribattere alle domande dei giornali che reputa più fastidiosi. È un metodo che svela una strategia, meditata dopo il riposo estivo, perché il calendario impone di recuperare i toni della campagna elettorale, perché la stagione porta con sé due emergenze che fiaccano l’azione del governo. Se le ricette contro l’immigrazione vanno male, se i conti del bilancio non tornano, ci sono precise responsabilità, secondo Meloni, colpevoli facilmente individuabili. Una lista che si ingrossa appena qualcuno mette in dubbio provvedimenti e iniziative dell’esecutivo. L’ultima, in ordine di tempo, è Iolanda Apostolico. La giudice che ha rimesso in libertà quattro tunisini trattenuti a Pozzallo, praticamente smantellando il decreto Cutro. C’è un precedente contro la magistratura. In quel caso, però, la premier si nascose anche dietro l’anonimato delle «fonti di palazzo Chigi» per sostenere che l’imputazione coatta per il sottosegretario Andrea Delmastro è la prova che ci sono toghe interessate a fare opposizione politica. Pochi giorni dopo, durante il vertice Nato di Vilnius, Meloni fu costretta ad ammettere di identificarsi in quel comunicato e non ha più ripetuto l’errore. Questa volta, infatti, si scaglia apertamente contro la sentenza del magistrato del tribunale di Catania. Lo fa alle otto del mattino. Prestissimo, perfettamente coordinata con i giornali di destra freschi di stampa, editi dal deputato leghista Antonio Angelucci. Il Giornale, diretto da Alessandro Sallusti, coautore dell’ultimo libro di Meloni, e Libero, diretto da Mario Sechi, suo portavoce a Palazzo Chigi fino a un mese fa, sparano in prima pagina due titoli quasi identici. Tipica character assassination di berlusconiana memoria: chi è la toga, quali sono i segreti del giudice che ha opposto le proprie convinzioni giuridiche al governo.
È successo altre volte, in queste ultime settimane. Magistratura, Europa e sinistra sono i bersagli macro. Meloni allude, e le testate militanti subito integrano con nome e cognome. Dalla nebbia dei riferimenti della premier a «certi ambienti europei» è emerso il volto di Josep Borrell, socialista spagnolo e Alto rappresentante dell’Unione europea per la politica estera, sospettato dai sovranisti italiani di voler sabotare il Memorandum d’intesa firmato con la Tunisia nella speranza di frenare gli sbarchi.
Negli stessi giorni, la fisionomia di un altro nemico si è andata definendo a poco a poco, colpo su colpo, allusione dopo allusione. Il commissario europeo all’Economia Paolo Gentiloni è la sintesi perfetta del perfetto nemico della destra. Ex presidente del Consiglio, Pd, anche lui esponente di spicco del socialismo europeo, evocato come possibile premier di un governo di larga coalizione. Meloni e il vicepremier leghista Matteo Salvini ancora più esplicitamente lo hanno accusato di scarsa italianità, di non aver fatto abbastanza sulla riforma del Patto di Stabilità e di non aver mostrato la giusta flessibilità durante i negoziati sul via libera alle rate del Piano nazionale di ripresa e di resilienza.
L’autoassoluzione è totale e la catena della colpa porta quasi sempre all’estero. Prima era la Francia di Emmanuel Macron, quando il presidente la snobbava, quando dimenticava di invitarla a cena, e dopo le liti sulle navi dei migranti le scatenava contro il ministro dell’Interno Gérald Darmanin. Oggi le cose sono cambiate. Macron ha messo a disposizione di Meloni il suo miglior sorriso dopo aver capito una volta per tutte che è Salvini l’alleato italiano a braccetto del quale Marine Le Pen può lanciare la campagna dell’estrema destra contro l’immigrazione e la debolezza della risposta europea.
Ma i colpevoli, quando si cercano, non mancano mai. Adesso è il turno della Germania. Il governo socialdemocratico e verde del cancelliere Olaf Scholz e della ministra degli Esteri Annalena Baerbock, sono loro «gli altri Stati» che, accusa Meloni, «lavorano nella direzione opposta» all’Italia, sabotando accordi, finanziando le Ong che salvano vite in mare e portano i sopravvissuti sul territorio italiano. Nel teorema Meloni è la Germania, severa avversaria della destra dai tempi di Berlusconi, a complicare senza ragione la vita all’Italia, frenando le proposte di compromesso sulle nuove regole fiscali e facendo solidarietà sui rifugiati «con i confini degli altri». Tra Roma e Berlino c’era in ballo un piccolo trattato di amicizia a cui stavano lavorando le diplomazie, sul modello del Trattato del Quirinale firmato da Macron con Mario Draghi. Tutto è fermo ora, e lo resterà fino a quando non tornerà il sereno. A Granada, giovedì e venerdì, a margine dei due vertici europei, Meloni avrà l’occasione di parlare di persona con Scholz. Gli staff tecnici sono in contatto quotidianamente per un possibile bilaterale. Le tregue servono, tanto quanto i nemici.