La Stampa, 2 ottobre 2023
La seconda vita di Marta
Una storia universale è quella di Marta Fascina. Ma come? Una giovane donna si accompagna a un anziano multimilionario, ottiene una vita di lusso, un seggio in Parlamento e un’eredità di cento milioni di euro: che cosa c’è di universale? Il destino di tutte le donne che salgono una scala e poi sono costrette a ridiscenderla. Del loro lutto adornato di sospetti e maldicenze. Dell’esistenza dopo di lui, cara lei. E della necessità, confermata dalla storia, di un imprevedibile scarto di lato per averne una seconda, di vita. Guardavo la serie di Verdone, Vita da Carlo. La domestica s’innamora dell’ammiraglio dirimpettaio e va a vivere con lui. Quello muore e i figli le danno 48 ore di tempo per lasciare la casa. Et voilà, a tutti i livelli, nella realtà e nella finzione, dall’Italia all’America, da Francesca a Yoko o Jackie: che cosa succede adesso?
Fascina è un personaggio romanzesco, anche se non è facile determinare di quale scrittore. Non è un’ucronia, un sovvertimento del corso della storia, una sliding door aperta a un passato che non si è realizzato, ma piuttosto un anacronismo sopravvissuto perfino a se stesso. Silenzio, compostezza, trine, capelli raccolti. Se recita è andata oltre il metodo Stanislavskij creandone uno proprio, cercando e trovando l’affinità non tra l’attrice e il personaggio, ma fra l’attrice e l’attrice, il personaggio e il personaggio. Quale delle due? Questo è l’enigma e in tutte le pagine che abbiamo sfogliato la risposta non c’è. Facile, troppo facile riportarla a figure cui non corrisponde. Non è Anne Nicole Smith. Neppure (marito ancor vivente): Dasha Zhukova o Carla Bruni. Anche se proviene lei pure dal Sud, non è Francesca Pascale o Noemi Letizia. Non ha mai dimostrato gli anni o gli affanni. Si è resa imperscrutabile in un ambiente in cui tutto era sfacciato. Ha fatto del contegno una cifra. Ogni cosa è stata regolata. È arretrata quando le hanno intimato di farlo, si è fermata a tutti gli stop. La fine del suo cavaliere era prevedibile e al tempo stesso, ammettiamolo, nessuno l’ha mai ritenuta veramente plausibile (salvo digerirla nelle canoniche 48 ore). Così è davvero credibile che non avesse non soltanto un piano B, ma neppure uno principale. E oggi, passati oltre cento giorni dalla scomparsa di Silvio Berlusconi, non è chiaro che cosa farà da grande o, secondo altri punti di vista, dopo essersi opportunamente rimpicciolita, fino a riporsi nel cassetto da cui era venuta.
Oltre all’avviso di sfratto le giunge quello di rimettersi a lavorare. Ovvero: riportare la situazione al tempo precedente, come la domestica di Verdone re-indossa il grembiule e prepara la colazione. La differenza, cento milioni. La stranezza, che l’invito a farsi rivedere in quel Parlamento dove è stata eletta arrivi non dal popolo che l’ha eletta (quello ormai vive nel disincanto e subisce l’assenteismo come un destino) ma da conoscenti, che non sono parenti né suoi né di Stakanov. La si riconosce e la si rilegittima soltanto nelle forme di comunicazione con cui reitera il suo inconsolabile dolore. Resta quindi fissata in quell’ultima pubblica apparizione, in quel gran film che fu il funerale di Berlusconi dove ogni gesto, ogni capo d’abbigliamento, aveva un significato e un’ambizione. E dove lei aveva più di chiunque incarnato la sofferenza e, fra tanti e tante, indicato Marina come sodale.
E ora, dunque? La fase 2 della donna che sedeva alla sinistra del potente o famoso (alla destra siede il diavolo custode) è sempre un’incognita. Il bozzolo del lutto può occupare alcune pagine, poi occorre aprire un nuovo capitolo, non tanto per la narrazione, quanto per la protagonista.
Esistono nell’età moderna due modelli per il sequel. Il primo è Yoko Ono, ovvero l’iscrizione perpetua nel cerchio della vita che fu. Si manifesta nell’auto-incarico di vestale, sebbene sfiduciata in partenza e retroattivamente da amici e parenti, avversata dai tifosi, dubitata da tutti. Eppure, aprendo musei, scrivendo memorie, tenendo accesa la fiamma, con il tempo quel ruolo conquista se non legittimità, accettazione. Si consacra per abitudine. Il passato diventa un eterno presente, o viceversa, ma ci si può campare.
Dal punto di vista strettamente romanzesco, ma anche ai fini della sopravvivenza, la trovata migliore è invece il colpo di scena. Piuttosto che restare imbrigliata nei trascorsi, scegliere il più lontano e inimmaginabile dei futuri. È il secondo modello: Jackie. All’epoca e ancora oggi molti pensarono che aver sposato, dopo John Kennedy, Aristotele Onassis, ne confermasse l’avidità e rivelasse l’indecenza. Onassis non era soltanto uno degli uomini più ricchi al mondo, ma anche uno dei peggiori nemici della famiglia Kennedy, in particolare di Robert. Ma era il 1968, Robert era stato ucciso a giugno, le nozze avvennero a ottobre. Dallas era trascorsa da 5 anni, nel corso dei quali Jacqueline era stata la vedova d’America. L’unione con Ari è stato il modo di spezzare quel legame, di uscire dalla fotografia in gramaglie e da quella in rosa, protesa sul cofano a raccattare i pezzi di cervello del marito. Fu il modo per lasciarsi definitivamente alle spalle il clan con tutto quel che ne aveva amato (Robert) e detestato (il resto). Mi disse un collaboratore di giustizia: «Se vuoi uscire da una cosca e vuoi farlo vivo, l’unico modo è unirsi alla cosca rivale». Credo, data l’assenza di avversari per il clan a cui era appartenuto, si riferisse alo Stato. Con Onassis, Jackie ha spezzato l’incantesimo, annullato la favola, preferito lo sdegno alla compassione di chi amava la sua situazione molto più di lei. Sono le conseguenze del dolore, descritte dal regista Krzysztof Kieslowski in Film Blu, quando fa vivere alla vedova del compositore una relazione rabbiosa con il suo migliore amico, al fine di strappare il velo scuro, uscire dalla stanza dei rimpianti spaccando il vetro. Modelli alti, invenzioni registiche. Jackie leggeva tanto, aveva il gusto per una vita letteraria. Marta Fascina ha tempo per farlo e i mezzi per comprarsi la biblioteca di Alessandria. A lei sorprendere, o svanire.