la Repubblica, 2 ottobre 2023
Intervista ad Alessandro Haber
Sigaretta in mano, aria pensosa, abito grigio, Alessandro Haber svetta sul manifesto de La coscienza di Zeno di Svevo, che con regia di Paolo Valerio debutta da domani 3 al Politeama Rossetti di Trieste, con tappa al Quirino dal 17, e ampia tournée. «Finalmente riesco a fumare in scena, col personaggio più fumatore della letteratura italiana, e io stesso ho cercato di smettere ma mai come il protagonista Zeno Cosini. Fumare è una forma inconscia di autodistruzione o nevrosi, per noi uomini quasi soli che ci attacchiamo a qualcosa, a un leggere, un chattare, un telefonino.
Ora che nelle prove mi riconosco nella parte, ammetto che mi diverto, lavorando con ottimi colleghi. È come se mi calassi nei panni di un Mr Magoo, la sagoma miope del cartone animato che si salva sempre, e un po’ mi fa anche venire in mente Peter Sellers che in Oltre il giardino parlava con metafore disarmanti. Ho accettato di farlo in maniera istintiva, dopo le remore per un titolo che poteva essere solo appariscente, pur con rispettabili primattori che l’hanno fatto. Prima di convincermi, ho rischiato un passo indietro chiedendo se volevano sostituirmi».
Proprio ora che fisicamente si è quasi rimesso da malattie e impedimenti?
«Ha ragione, non sto più sulla carrozzina e non utilizzo neanche il deambulatore: in scena mi basta una stampella. Mi sono fatto un mazzo così, non era giusto mollare tutto a 76 anni, con certi personaggi che ti fanno sentire ancora vivo. Così mi curo meno del mio quotidiano, e sul palco mento dicendo la verità».
In che cosa l’aiuta questo spettacolo che vedranno in tanti?
«Qui c’è la coscienza di tutti, il mio Zeno affascina e inquieta, ho riflettuto sulla mia vita, su traumi, debolezze, lotte, amori, disperazioni, malinconie, affetti e delusioni, e il pubblico s’interrogherà altrettanto.
Ho capito che devo essere me stesso oltre Svevo, uno che in maniera sconsiderata si fa scivolare addosso tutto, mai un senso di colpa, dicendo quello che pensa, uno che ci prova con ogni donna. Zeno chiede la mano a tre sorelle, una dietro l’altra, e la terza la più brutta accetta, si considerava zitella, e lui trova pace.
“Io non sono innamorato di te – le dice – ma possiamo consolarci a vicenda”, e mentre trova un rifugio, trova un’amante. È successo anche a me di muovermi su due piattaforme, la trasgressione è in noi, è un complesso che ha una sorta dicandore, fa tenerezza».
Lei recita in uno spettacolo tratto da un romanzo che ha cent’anni esatti, debutta a Trieste la città dell’autore, in un adattamento firmato dal regista direttore dello Stabile e da Monica Codena, l’operazione è sostenuta dal Teatro del Friuli Venezia Giulia e da Goldenart Production. Tra i dieci interpreti del cast figuranoMeredith Farulla, Valentina Violo e...
«...E all’inizio c’è un mio doppio giovane, che io controllo e correggo, impersonato da Alberto Onofrietti, con cui interagisco. Mio padre, reso da Francesco Migliaccio, prima di morire mi dà uno schiaffo e mi lascia dei dubbi: sono buono o cattivo? È un’ossessione che mi segnerà anche col mio psichiatra, il Dottor S, da cui vado per il vizio del fumo, che mi attribuisce un complesso di Edipo inesistente. È una regia fuori dai canoni, un lavoro con percorsi coreografici, è un circo nella mente. I precedenti illustri non li ho voluti vedere, contribuisco un po’ da zero, nell’ora e 40 minuti dove sono autore accolto dal regista. Tiro fuori mie cose vere, il privato, il rapporto con mio padre uomo di poche parole. È un itinerario pieno di insidie ma anche di meraviglie, senza cronologie ma con un sacco di barlumi. Ho voglia di trasmettere emozioni alla gente in sala».
E c’è quel clamoroso finale...
«Come no. Un mio monologo preannuncia la catastrofe. Cento e più anni fa Svevo mi fa prevedere quello che accadrà, la bomba atomica, responsabile un uomo come noi».
Lei si reputa un responsabile o un irresponsabile?
«Io sono un matto costruttivo, mai fuorviante, se sono incazzato, è per un fine. Nella mia vita c’è una dolcezza garantita da mia figlia Celeste, una diciannovenne che sento ma vedo sempre meno, perché lei trova amori e lavori, ma io voglio restare il suo porto, tutto quello che ho è suo. Quanto a me, ho una storia da tre anni di cui sono contento, imprevista alla mia età, mi aiuta».
La sua malattia ora superata l’ha sottoposta a qualche delusione, isolamento?
«Teatro e cinema non m’hanno ignorato. In un mondo di amici scomparsi come Fantastichini, Scattini, Bucci, Piero Natoli o Tonino Zangardi, un caro amico di oggi come Giovanni Veronesi m’ha voluto nel suo film Romeo è Giulietta dove Sergio Castellitto è un regista, e Pilar Fogliati è una Giulietta respinta che viene scritturata come Romeo, e io faccio il produttore. Ho fatto una partecipazione nel film 50 km all’ora di Fabio De Luigi, come padre del regista e di Stefano Accorsi. Non ambisco alla tv, vedo solo le partite, e qualche serie. Se col cinema ho una relazione da amante, col teatro faccio cultura ed è la mia donna preferita. Al di là di piccole bugie sono corretto, leale. Finisco con Svevo a dicembre, e ridebutto alla Pergola con La signora del martedì di Carlotto, con Giuliana De Sio, Paolo Sassanelli e Riccardo Festa, regia di Pierpaolo Sepe, fino ad aprile. Poi vorrei ricavare un monologo dal mio libroVolevo essere Marlon Brando, dove mi metto a nudo, in modo divertente e amaro, come Zeno Cosini. Tutto torna, no?».