Corriere della Sera, 2 ottobre 2023
La prigionia di Dacia Maraini
Come ci ha insegnato Primo Levi, raccontare la propria sopravvivenza è un esercizio estremo, e qualche volta a certi autori non basta una vita intera per essere pronti. E forse è anche per questo motivo che a Dacia Maraini sono stati necessari decenni di gestazione prima di scrivere questo bellissimo Vita mia, in libreria da domani per Rizzoli. Non è un romanzo, ma del romanzo ha l’andamento lineare e aggraziato che si ritrova in tanti libri della scrittrice oggi ottantaseienne. Non è un vero e proprio diario, perché – come lei stessa premette sin all’inizio – molto si basa sui racconti di Fosco e Topazia, gli amati genitori. E non è nemmeno un saggio, anche se numerosi sono gli innesti di riflessione sulla storia e sul presente.
Sì, giunti alla seconda rilettura, Vita mia sembra proprio vestire l’abito giusto: una cronaca asciutta dove l’autrice recupera il suo sguardo di bambina (aveva appena sei anni quando tutto cominciò) e racconta la sua prigionia in un campo di concentramento giapponese, assieme alla famiglia. La formula letteraria più adatta per questo racconto: in quell’ottobre di ottant’anni fa, quando gli ufficiali giapponesi si presentarono nella sua casa di famiglia a Kyoto, Dacia era troppo giovane per poter fare oggi un resoconto minuzioso. Ma troppo grande per affidarsi unicamente al racconto dei genitori.
Maraini cuce così ricordi lontani, antiche suggestioni, episodi tramandati in famiglia e ricostruzioni accurate per regalarci – «finalmente», diranno molti dei suoi lettori che aspettavano da tempo questo libro – il romanzo della prigionia, la testimonianza di una grande intellettuale del nostro tempo che sceglie di mettersi a nudo proprio adesso e non a caso. Adesso, scrive, perché «da una parte si vorrebbe dimenticare ciò che non si può dimenticare, soprattutto quando si sente che circola e si diffonde un sentimento di irritazione e di stanchezza verso la memoria, un sentimento che sentiamo come offensivo e umiliante (…). Ma un’altra voce, meno persuasiva e più insistente, invece sprona a parlare. A dire, a rammentare, a testimoniare».
Il racconto comincia da quegli ultimi giorni d’estate del 1943, quando la famiglia Maraini viveva già da tempo in Giappone: Fosco era uno stimato antropologo, lavorava all’Università di Kyoto; la madre, Topazia Alliata, era bene inserita nella comunità culturale; Dacia parlava il dialetto della città e le due sorelle minori, Toni e Yuki, trascorrevano un’infanzia serena, tra filastrocche ispirate alla saggezza giapponese e gli omochi, i dolcetti preparati dalla balia Miki. L’8 settembre cambiò le sorti di tanti italiani, anche quelli residenti all’estero: i Maraini si rifiutarono di aderire alla Repubblica di Salò e divennero così nemici del Paese dove abitavano, opponendosi al patto che il Giappone aveva appena concluso con la Germania nazista e l’Italia fascista.
Dopo un paio di settimane ci fu la deportazione, che assomiglia a tante di quelle che abbiamo imparato a conoscere dai romanzi e dai film sulla Shoah: l’arroganza sbrigativa dei militari, l’assenza di pietà di fronte a tre bambine piccole, che la madre scelse di portare con sé rifiutando di affidarle a un orfanotrofio, come proposto dai soldati. È il primo di tanti presagi che costellano questo libro: l’orfanotrofio al quale erano destinate Dacia e le sue sorelle verrà bombardato e tutti i bambini presenti moriranno.
È un presagio anche l’idea di Topazia di portare con sé delle lenzuola, sacrificando i vestiti, come se avesse intuito la futura utilità di cucire abiti per i carcerieri in cambio di una manciata di riso in più. E chissà come, nella misera valigia che li accompagnerà nel campo di Nagoya, Topazia ebbe l’idea di mettere anche uno scialle rosso: alla fine della guerra, quando ormai erano segregati in un altro campo, senza più carcerieri ma isolati dal resto del mondo, lo cucirà a un pezzo di lenzuolo bianco e a una vestaglia verde per comporre una bandiera italiana da issare al suolo e chiedere così aiuto agli aerei alleati che fendevano il cielo.
Il racconto della prigionia non ha nulla di enfatico, né tantomeno di retorico: Maraini sa perfettamente che il semplice resoconto delle giornate è sufficiente a restituire la tragedia della guerra e delle sue vittime. I guardiani – piccole macchiette più sciocche che malvagie – che sottraggono il cibo destinato ai prigionieri per arricchirsi sul mercato nero, le formiche ingoiate di nascosto nonostante l’inevitabile mal di pancia da intossicazione, lo scorbuto e il beri-beri che, poco per volta, erodono anche il corpo sano delle bambine, la spossatezza crescente di Topazia Alliata che denuncia «macchie agli occhi e caduta di capelli», la magrezza di Fosco, uomo un tempo atletico e sportivo.
Ma la natura raffinata di questo libro risiede anche nella capacità dell’autrice di innestare le vicende e le peculiarità della sua famiglia dentro il più ampio terreno della Storia. «La parola era diventata inutile, troppo faticosa, superflua», annota. È una piccola morte in una famiglia che viveva di vivaci dibattiti filosofici tra i genitori, haiku imparati a memoria dalle bambine, di un inesausto esercizio della discussione come strumento di libertà e di autonomia. Senza enfasi, ma con precisione, Maraini tesse un continuo confronto tra la qualità umana e intellettuale di Fosco e Topazia e l’assurdità della guerra, del razzismo, della violenza.
È qui che si ritrovano i nuclei fondanti della sua letteratura, da sempre improntata alla pietà, al rispetto degli ultimi (animali compresi) e l’inesauribile energia che la porta a schierarsi, ancora oggi, contro ogni forma di sopraffazione. E si ritrova pure una particolare attenzione al femminile: i piccoli grandi gesti di Topazia, il tentativo di violenza sessuale da parte di un soldato, al quale riuscì a sfuggire. Chi ha letto i suoi romanzi, rintraccerà in questo Vita mia una filigrana sottile che conduce, punto dopo punto, alle opere più importanti della scrittrice, come se in quei due anni di prigionia Dacia avesse composto i nuclei della sua poetica. «Come si apre una strada nella neve vergine», citando l’incipit de I racconti della Kolyma di Varlam Šalamov, un altro splendido e tragico affresco della prigionia.